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REVIEWSLE RECENSIONI
18/01/2024
Harp
Albion
Dopo più di dieci anni dalla separazione con i Midlake, Tim Smith esordisce sotto il moniker Harp, con un disco autunnale, malinconico e ispirato dalla campagna inglese.

Tim Smith ha lasciato i Midlake nel 2012, durante le sessioni di registrazione per il seguito previsto del terzo album della band texana, The Courage Of Others del 2010. Troppo perfezionista per vivere i ritmi frenetici della band, affermò. E non gli si può dar torto, visto che ha impiegato più di dieci anni per riaffacciarsi al mondo della musica con il progetto Harp, condiviso con la moglie Kathi Zung, e un disco intitolato Albion, che la dice lunga sulle passioni musicali del songwriter americano.

Ombroso e quasi sussurrato, l'album di debutto di Harp evoca i campi del Sussex per riflettere sulla perdita creativa, sulla solitudine e sul fluttuare agrodolce dei giorni. Ispirati da William Blake, Herstmonceux Castle e Faith dei Cure, uno dei dischi più desolati e depressi della band capitanata da Robert Smith, i coniugi creano un paesaggio autunnale con riverberi che pagano debito agli anni Ottanta, voci spettrali e batteria tagliente e metallica. Il risultato non è certo un ascolto facile, perché sembra di fluttuare in un crepuscolo permanente, attraverso il quale, solo a tratti, passano pallidi raggi di sole.

 

Si astengano, pertanto, gli allegroni alla ricerca di melodie di facile presa e ritmi serrati. Tuttavia, Albion, che, come dicevamo, arriva un decennio dopo che Smith lasciò Midlake, è un disco che, pur con qualche differenza rispetto al passato, si farà apprezzare da coloro che hanno amato la band folk rock texana, visto che di quel suono recupera sia la trama principale che alcuni dettagli: archi sintetizzati e flauti ansimanti, infatti, si nascondono dietro lo strato nebbioso dell’interplay fra suoni elettrici e chitarra acustica. La voce triste e ammaliante di Smith, poi, non cerca mai la scena, incede lentamente, senza sussulti, dando vita a un flusso introspettivo, forse un po’ monocorde, ma perfettamente al servizio della rarefazione umbratile delle emozioni.  

Gran parte dell'album si muove a passo d’uomo, lentamente, in un alveo sognante connotato dai carezzevole pastelli dell’iniziale "The Pleasent Grey" e dal meditabondo vagabondare del singolo "I Am the Seed", una sorta di metafora sul perfezionismo frustrato di Smith e sulla caducità dell’ispirazione, in cui il vocalist canta, mestissimo: "Tutto ora giace incolto, niente dà quello che dava una volta". In scaletta, dodici canzoni, in cui Smith raggruma tutta la sua poetica: folk, pop, stasi ipnagogiche ("Chrystals"), melodie fluttuanti che evocano l'ex casa madre ("Daughters Of Albion"), qualche eco che ricorda i Cure più ombrosi ("Throne Of Amber"), la foresta, rovine medievali, un mood autunnale e malinconico, pioggia, nebbia, languori tristissimi che citano i primi Radiohead ("Shining Spires").

 

Forse, a conti fatti, ci si poteva aspettare di più dopo una gestazione quasi decennale, ed è altresì inevitabile paragonare Albion con la precedente carriera di Smith, costellata di autentiche gemme. Eppure, il disco ha una sua identità, è ricco di suggestioni poetiche e momenti struggenti, e chi si sente ancora orfano di un capolavoro come The Trials Of Van Occupanther, in questo esordio potrebbe ritrovare quella magia che i Midlake, dopo l’abbandono del leader, hanno in parte dimenticato.