Senza originalità, il mio canone bowiano è racchiuso nell’era del catalogo RCA.
Non vedo novità nello stilare una mia antologia che – ancora con poca fantasia – consisterebbe, in discreta dose, di versioni piuttosto che di soli “take” definitivi (siccome ufficialmente pubblicati); pur se è mia opinione che per scrivere di David Bowie si debba avere l’umiltà di una sua frequentazione (l’ascolto non basta di certo) non tacciabile di una superficialità che proprio con l’aumentare delle fonti a disposizione, si fa più evidente[1].
Consiglio a tutti di ascoltare qualsiasi registrazione in cuffia: diversamente molte sfumature vanno perse. Meglio un ascolto notturno, scevro di distrazioni di sorta.
Ho già scritto del brutto anatroccolo The Man Who Sold The World, ma dopo l’inequivoco cigno Ziggy (TRAFOZSATSFM, in breve) stanno i fratellastri Aladdin Sane e Diamond Dogs, entrambi racchiusi in dovuta gatefold sleeve[2].
Il primo di questi album è, obiettivamente, così inafferrabile che non ci si ricorda molto della sua essenza (le canzoni) bensì della sua forma (l’immagine di copertina con la saetta che traversa il volto bowiano). Curioso, anche perché essendo uscito in piena Ziggy-mania entrò a far parte di ciò che era suonato dal vivo nel 1973.
A parte leggere (non sullo schermo del vostro lettore MP3: non li riporta) i sottotitoli di ogni opera musicale che lo compone, provate a pensare “USA nella mente di un artista inglese nell’anno 1973”[3] e magari qualcosa salta fuori.
Oltre all’inevitabile, appunto, citazione di Vile Bodies di Evelyn Waugh, vi invito a sviscerare il testo di “Time” e a non sottovalutare il respiro di Bowie perfettamente udibile nella registrazione.
I Cani di diamante, come semi-abortito concept album ispirato a 1984 di George Orwell[4], avrebbero ragion d’essere anche se la loro durata fosse di 5” al “minuto due della prima facciata”: il tempo di dichiarare “This ain’t rock and roll/This is genocide!”[5].
Ma le salivanti fauci in costume peellaertiano (senza dimenticare il film Freaks) non lasciano la preda.
Il disco può essere sgradevole e come tale non apprezzato. Però nessuno può evitare d’inchinarsi al riff perfetto che apre “Rebel Rebel” e schierarsi di conseguenza; perché questa canzone è la nemesi generazionale: il giorno in cui non la si condivide più, si è vecchi.
Gli è che si prosegue ancora, lungo strade che saranno poi percorse con altra visione: ironicamente “1984” è già il plastic soul di Young Americans.
[1] È la solita storia: le poche pagine a mo’ di scrapbook del giovane Morrissey dedicate alle New York Dolls o a James Dean reggono il confronto con i due volumi dedicati da Peter Guralnick a Elvis Presley.
[2] Un mio cruccio è l’impossibilità di entrare, letteralmente, nel mondo racchiuso nella immagine di copertina di The Rise and Fall … ovvero davanti al 21-23 di Heddon Street (London, W1) nel 1972.
[3] Non era la sua prima visita stateside, ma in qualche modo fu forse il suo primo viaggio in cui poteva cercare di confrontarsi con questo continente.
[4] Ma si cerchi (su Internet, volendo) anche l’intervista reciproca con William Burroughs: “Beat Godfather Meets Glitter Mainman”, pubblicata in Rolling Stone, numero del 28 febbraio 1974. Intervista svoltasi a Londra nel precedente novembre.
[5] Alla musica italiana sé-dicente quasi sempre manca l’ingrediente “genocidio”.