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REVIEWSLE RECENSIONI
24/06/2021
Mdou Moctar
Afrique Victime
Un disco di straniante bellezza, un grido di libertà contro gli abusi del colonialismo, canzoni che uniscono e fondono due culture musicali apparentemente distanti ma figlie della stessa terra

Un disco di denuncia, di rabbia, di militanza, un grido di libertà contro il colonialismo, lo sfruttamento sfrenato delle risorse, il depauperamento di un popolo, umiliato, derubato, massacrato. E’ la copertina dell’album che lo esplicita senza mezzi termini, prima ancora di ascoltare una sola nota di Afrique Victime, sesto lavoro in studio del musicista tuareg, Mdou Moctar. Un rapace artiglia mamma Africa piangente, dietro un bagliore, che forse rappresenta la speranza o forse è semplicemente il luccichio di una gemma ghermita. In una terra ferita brutalmente da rapine minerarie internazionali e dalla mano feroce del terrore fondamentalista, fare musica non è semplicemente scrivere canzoni, ma lottare per dare voce a un popolo e raccontare una tragedia troppo spesso nascosta agli occhi dell’opinione pubblica.

Non solo, però. Questo è un disco che ingenera diverse riflessioni, che emoziona e tocca il cuore, ma spinge a ragionare: sulla musica e sull’Uomo.

Mdou Moctar è stato spesso definito il Jimi Hendrix del deserto, definizione, questa, abbastanza pigra e prevedibile, ma che suggerisce, tuttavia, la stretta connessione che esiste tra due realtà musicali, geograficamente distanti, ma indissolubilmente legate dal medesimo dna. Afrique Victime, a prescindere dai suoi sviscerati contenuti politici, è un disco in cui due culture convergono, palesando la stretta consanguineità: da un lato, le sonorità tuareg e il blues, che ha avuto i natali proprio in questa terra, dall’altro, una decisa componente rock, che altro non è se non l’evoluzione occidentale di quella cultura ancestrale, qui restituita alle sue origini, dopo un lungo processo di contaminazione.

Afrique Victime si apre con Chismiten: venti secondi di quasi silenzio, passi che si avvicinano a un amplificatore, poco prima che parta un selvaggio lick di chitarra, e Moctar e la sua band si fondono rapidamente in un trascinante groove, ondeggiante e sinuoso come le movenze di un serpente incantato. Ed è proprio questa attenzione al ritmo, questa oscillazione continua, ad essere il filo conduttore di una scaletta che spinge a ballare voluttuosamente sulle note di Asdikte Akal, che tesse trame acustiche potenti e maestose (Tala Tannan e Layla), che pompa decibel e drammaticità nella title track e che si chiude nel misticismo sognante di Bismilahi Atagah.

Con Afrique Victime, Moctar racconta la propria terra attraverso un linguaggio che è scoperta e sorpresa, ma che, al contempo, suggerisce anche una vicinanza, per ricordarci il debito, nei confronti dell'Africa, di quasi tutta la musica moderna. Dischi come questo sono una porta su un futuro immaginario, l’ipotesi di un domani migliore, l’utopia di una fusione, in cui la connessione globale possa far sì che un chitarrista del Sahara possegga lo stesso appeal culturale di una pop star occidentale. Questo, soprattutto, è un disco capace di lenire l'anima con la bellezza e aprire gli occhi agli scettici su ciò che la musica, la musica veramente buona, può fare per ciascuno di noi, non importa da dove essa provenga. In queste canzoni, le differenti estrazioni sociali e il colore della nostra pelle svaniscono di fronte a un’emozione che dovrebbe scuotere qualsiasi essere vivente nel profondo. E unire, in un sogno di fratellanza condiviso.


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