Chi avesse letto la nostra intervista ai Long White Clouds pubblicata a giugno avrà scoperto parecchi aspetti della storia particolare del quartetto bergamasco. Andrew Burch, già musicista nella sua Nuova Zelanda, trasferitosi per amore in Lombardia, vive ormai in pianta stabile nel nostro paese ma ha portato all’interno della band quelle influenze Indie Rock che la sua terra d’origine ha saputo esprimere con così grande maestria (la Flying Nun, il Dunedin Sound, i Chills e quelle cose lì, insomma).
Aeroplanes arriva a quattro anni di distanza dall’EP Everyone Around Here Looks Angry, e rappresenta il vero e proprio esordio del gruppo, sebbene la durata eccessivamente ridotta (otto canzoni per 24 minuti di musica) ci lasci alla fine dell’ascolto con un senso di incompiutezza che speriamo possa essere colmato nel prossimo futuro.
Detto questo, la produzione di Federico Laini (Plastic Made Sofa) e Riccardo Zamboni ha saputo valorizzare al meglio le spiccate doti di songwriter di Burch, coadiuvato dall’ottimo lavoro strumentale dei colleghi Matteo Pansa, Nicola Lazzaroni (con lui anche ai tempi dei Club Fools) e Michael Ehlert.
La proposta, l’abbiamo già detto, è fortemente derivativa ma non per questo meno efficace, col valore aggiunto che in Italia gente che fa questa roba qui ce n’è davvero molto poca.
“Ask Me”, già uscita come singolo, è l’opener perfetta, piglio deciso e ritornello clamoroso, degno dei grandi esponenti del genere. La successiva “Breathing Sunlight” invece punta molto sul groove, con un basso pulsante e un ritornello esplosivo che richiama molto certe band di primi Duemila (vedi Franz Ferdinand). È un esempio perfetto di varietà nel songwriting, con brani che si muovono su spettri differenti, accomunati tuttavia da una freschezza inusitata e ad un superbo dosaggio degli ingredienti melodici (i ritornelli funzionano tutti alla perfezione).
Così, se “Get a Grip” (il secondo dei due singoli usciti a inizio estate) si presenta ruvida, tutta incentrata su un efficace parte di chitarra ritmica, “The Decider” punta sul romanticismo, più lenta nell’andatura e le tastiere in evidenza durante un chorus a metà tra il malinconico e l’introspettivo.
Con “Creeping on my Social” si rallenta ancora, un bel mid tempo con un riff che funziona a meraviglia ed il solito ritornello indovinato; “Nothingness” e “In With a Grin” esplorano invece il lato più scuro della formazione, sempre ineccepibili dal punto di vista melodico, ma più ripiegate su se stesse per quanto riguarda la gestione dell’espressività.
Chiude il tutto “Play Dead”, ballata intimista e semi acustica, ideale punto di chiusura di un lavoro che, nonostante la brevità, risulta indovinato dall’inizio alla fine (e forse per questo risulta più necessario di dischi più lunghi ma pieni di filler).
Fuori tempo massimo (fosse uscito vent’anni fa avrebbe forse goduto di ben altra considerazione) ma bellissimo ugualmente. Attendiamo il seguito.