I Sonata Arctica hanno la prerogativa di essere uno dei gruppi Metal più odiati dai metallari, ma in questo caso direi che tale caratteristica depone totalmente a loro favore. La faccio breve: non se ne può più di ascoltare insulti e lamentele da parte di chi, all’indomani della presunta svolta stilistica inaugurata da Winterheart’s Guild, che rendeva più complesso e in parte decostruiva il Power Metal delle origini per andare alla ricerca di una proposta meno lineare ma assolutamente coerente all’identità del gruppo, pare non essersi ancora rassegnato a non sentire più i finlandesi andare a duemila all’ora e abbracciare tutti i principali cliché di un genere che, mi sia consentito, aveva già esaurito tutte le potenzialità espressive alla fine degli anni novanta.
La verità è che, piaccia o non piaccia, ciò che Tony Kakko e compagni hanno fatto negli ultimi 19 anni (diciannove, capite? E c’è ancora gente che parla dei primi due dischi!) è una musica quanto più possibile originale, unendo la limpidezza delle melodie alle strutture ritmiche intricate, costruendo canzoni spesso sghembe, difficilmente assimilabili al primo ascolto, profondamente stratificate e al tempo stesso ricche di potenziale melodico, con il Power di stampo europeo presente in dosi abbondanti ma in sottofondo, volutamente contaminato da più di un rimando al Pop di matrice Eighties.
I puristi li hanno scomunicati ma è già da anni che il Metal non può sopravvivere al di fuori delle contaminazioni; i Sonata Arctica, da parte loro, sono stati premiati dal pubblico: tanti dischi venduti, tour mondiali un anno sì e un anno no, un prestigioso contratto con la Nuclear Blast che in tutto questo tempo non è mai venuto meno. Con buona pace di chi non riesce a guardare oltre Ecliptica, la posizione del quintetto di Oulu nel Music business non è mai stata scalfita, neanche in questi anni di streaming imperante e di crisi pesante della discografia.
Acoustic Adventures vol.1 è in parte una conseguenza della pandemia, con il tour posticipato e la necessità di ritornare sul mercato per dare un contentino ai fan rimpinguando allo stesso tempo le proprie casse. Il progetto però era nell’aria da tempo, ha le sue radici in una manciata di show acustici realizzati nel 2019 e se si cerca su YouTube ci si può imbattere anche in una suggestiva session in cui i nostri rileggono allo stesso modo un lotto di canzoni piuttosto simile a quello qui contenuto. Per non parlare del fatto che la loro musica si presta particolarmente ad essere eseguita in questa veste, proprio per il discorso delle melodie efficaci che facevamo prima.
Ragion per cui, dopo un cammino discografico che ha toccato quota dieci capitoli, mantenendo un livello qualitativo mediamente alto, pur con qualche comprensibile flessione (niente di che The Ninth Hour mentre l’ultimo Talviyö sapeva un po’ di minestra riscaldata, nonostante non fosse certo un lavoro insufficiente) è arrivato il momento dell’Unplugged, che funge insieme da pausa di riflessione e, già che ci siamo, anche da tentativo di imbastire una retrospettiva di carriera.
Cominciamo col mettere le mani avanti: questo lavoro, se non si è proprio dei fan accaniti, risulterà del tutto inutile. Chi volesse avvicinarsi alla band può farlo attraverso i vecchi album (io mi permetto di consigliarne due: Ecliptica per capire come suonassero agli esordi, Reckoning Night per rendersi conto di quanto fosse vincente la formula della maturità, nel momento in cui raggiunsero i massimi livelli di ispirazione), chi avesse fame di esecuzioni acustiche può guardare senza dubbio da altre parti, c’è roba molto migliore di questa.
Chiarito il concetto, se contestualizzato all’interno del repertorio della band, Acoustic Adventures è un progetto che potrebbe anche dire la sua. Innanzitutto c’è il pregio della scelta dei pezzi: niente ballate stra conosciute (a parte “Tallulah”, credo che quella fosse inevitabile) o comunque canzoni fin troppo scontate da rifare in questa veste, bensì spazio ad episodi nati in chiave elettrica, non particolarmente lineari e quindi più difficili da spogliare dei loro principali elementi. Dulcis in fundo, quasi nessun classico e attenzione soprattutto agli ultimi dischi, come ad indicare che questo è un gruppo che non ha mai vissuto e mai vivrà di auto celebrazione (il fatto che da un paio di tour avessero tolto “Full Moon” dalle scalette la diceva già lunga in questo senso).
Passando al lato delle esecuzioni e delle scelte operate in fase di arrangiamento, anche qui le cose funzionano. Tony Kakko non ha mai avuto una grande estensione vocale (e con l’età è ovviamente peggiorato) ma ha la sua forza nell’espressività e nella teatralità dell’interpretazione, tutti aspetti che in queste versioni, complessivamente più scarne, vengono messi in evidenza. Stessa cosa per le melodie vocali, da sempre tra gli elementi vincenti di questo gruppo, che in tale contesto costituiscono il punto focale di ogni episodio. In generale, checché ne abbiano detto loro in sede di presentazione, non è che i brani così reinterpretati si discostino troppo dagli originali. Forse l’unica eccezione è “For the Sake of Revenge”, che si trasforma in un’elegia struggente enfatizzando il carattere di sofferenza e alterazione mentale della versione di “Unia”.
Il resto, bene o male, rispecchia il modello di partenza, solo ovviamente con le chitarre acustiche ed altri strumenti a corda a prendere il posto delle distorsioni, e anche il ritmo tenuto è simile. Si veda ad esempio l’iniziale “The Rest of the Sun Belongs to Me”, splendida bside del periodo Reckoning Night, che conserva l’incedere impetuoso, da cavalcata; oppure “Don’t Say a Word”, che è ugualmente incalzante e rabbiosa; o addirittura “Wolf & Raven”, brano simbolo del periodo Speed, che i nostri giocano a rifare più o meno alla stessa velocità, come dei ragazzini che si divertano in sala prove.
In generale è tutto molto gradevole, quasi nulla spicca per eccellenza ma ci sono anche poche cose davvero trascurabili: direi le sole “Tallulah”, che ormai ha fatto il suo tempo, soprattutto se viene rifatta in questo modo privo di fantasia, e poi “As If the World Wasn’t Ending”, che non mi piacque quando uscì e in cui non ho riscontrato particolari miglioramenti.
Di contro, abbiamo gradevoli versioni di “The Wolves Die Young”, “Paid in Full”, “A Little Less Understanding” e di un’altra bside, quella “Tonight I Dance Alone” che, nonostante fosse già in origine una ballata triste, viene qui interpretata in modo elegante, con grande fascino.
Ci sarà un vol.2, a giudicare dal titolo, e potrebbe anche uscirne qualcosa di altrettanto buono. Per il resto, quando e soprattutto se sarà possibile, siamo curiosi di sentire queste canzoni dal vivo: da noi dovrebbero (condizionale d’obbligo) passare a novembre a Milano.