Il blues è una musica di contrasti, dolorosa, appassionata, volgare e aggrovigliata. È un crocevia, una mescolanza inestricabile di culture, linguaggi. Tutto si interseca e relaziona in base ad alcuni personaggi che ne hanno segnato l’orizzonte senza mai toccarlo, in un continuo tendere all’infinito tra estasi e tormento, bellezza e miseria, in un interminabile andirivieni.
Uno di questi personaggi è Hubert Sumlin: ha vissuto un’esistenza incredibile, tra un’iniziale indigenza e povertà, la susseguente ascesa nel mondo del blues elettrico, i lunghi momenti di oblio e finalmente un nuovo periodo di vitalità artistica, con il riconoscimento della sua statura di “gigante della chitarra” per merito di tanti colleghi più giovani, da Keith Richards e Clapton a Jimmy Vaughan, Robert Cray, i quali con ostinazione l’hanno cercato e voluto nei concerti, in sala di registrazione, per suonare quella musica, la sua musica, sua salvezza fin da quando aveva otto anni.
Otto anni, si torna indietro al secolo scorso, nel 1939: il piccolo Hubert non ha mai più smesso di sorridere da quando ha imbracciato e abbracciato per la prima volta la sua sei corde; nonostante le difficoltà provate da un giovane nero nell’America di quei giorni, nonostante il veloce abbandono del luogo in cui è nato, Greenwood, Mississippi, per trasferirsi in Arkansas, nella piccola Hughes. Nuove facce, nuovi usi e costumi, tuttavia sempre il volto amico di un altro personaggio epico, James Cotton, talentuoso armonicista pure lui proveniente da un paesino vicino a Greenwood, Ruleville.
Sumlin e Cotton formano una bella coppia, si esibiscono per il puro piacere di farlo e vivono delle offerte ricevute in un piattino posto davanti a loro mentre suonano. A cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta vengono notati da Howlin’ Wolf, il quale, poco dopo, pronto per il grande salto artistico commerciale, si muove da Memphis a Chicago, culla della fase successiva al Delta blues, ove avviene l’elettrificazione del genere. Nel 1956, infatti, Wolf decide di registrare una canzone che cantava già da parecchio tempo, "Smokestack Lightning", però sceglie un nuovo arrangiamento con un incredibile riff di Sumlin che sarebbe stato copiato fino alla nausea.
Howlin’ diviene una specie di padre putativo per il giovane Hubert, trasferitosi anch’egli nella windy town per seguire il maestro, ed è l’inizio di un idillio che continuerà per due decadi, non senza qualche scaramuccia dovuta alla rivalità con l’amico/“nemico” Muddy Waters, reo di avergli soffiato il ragazzo per alcune sessioni di registrazione. Sono i momenti migliori della storia artistica del giovane del Mississippi, che sviluppa uno stile unico, aggressivo e acrobatico, tanto da ispirare gente come Hendrix e Bloomfield, in brani epici come "Killing Floor", "Back Door Man" e "I Ain’t Superstitious". I suoi fraseggi sono talmente taglienti, rifiniti e precisi da catturare la fantasia e l’immaginazione di Clapton, Beck e Page; l’audacia dei “licks” di "Spoonful" e la spettacolarità nell’assolo di "Shake for Me" toccano territori mai esplorati in quel periodo. Le sue chitarre, una Les Paul con P-90, una Stratocaster, alcune Gretsch e addirittura una Rickenbacker 360 sono il segreto, insieme alla sua eccezionale abilità, del suono così avvolgente, qualcosa di speciale, irraggiungibile.
Seguono purtroppo anni difficili, dopo la morte di Wolf nel 1976. Sumlin continua a suonare con diversi altri membri della band, utilizzando il nome Wolf Gang, fino ai primi Ottanta, poi si eclissa, subendo fin troppo la marginalità vissuta dal blues come genere in tal frangente. Il primo scossone positivo avviene verso la fine del secolo: partecipa all’album Tribute to Howlin’ Wolf con Henry Gray, Calvin Jones, Sam Lay e Colin Linden e nel ‘99 pubblica Legends, con l’eccezionale e storico pianista Pinetop Perkins. Tutto ora è pronto per il suo progetto solista per eccellenza, About Them Shoes, concepito nel 2004, anno in cui è ospite acclamato a giugno del Crossroads Guitar Festival organizzato da Clapton a Dallas, e uscito pochi mesi dopo, a gennaio 2005.
“E’ veramente un grande album, per me è un piacere e un onore suonare con Hubert Sumlin. E sono collegato a Rob Fraboni da tempo, ha anche lavorato con noi per Bridges to Babylon, tutto è filato liscio con divertimento”. (Keith Richards)
Prodotto da Rob Fraboni, geniale ingegnere del suono famoso per le collaborazioni di alto livello con Dylan, The Band, Bonnie Raitt e i Rolling Stones, About Them Shoes riprende dodici standard della musica del diavolo ad opera di due fra le penne più affilate in quel campo, il leggendario Willie Dixon e il compagno di mille avventure Muddy Waters. La tredicesima traccia è invece una perla autografa, incisa totalmente unplugged senza sovraincisioni, che mostra quanto avrebbe potuto realizzare a livello compositivo il buon Sumlin, se non fosse stato troppo umile in carriera, sempre ai servigi dei più nobili bluesman e poco aiutato a emergere come personaggio di rilievo. Così "This Is the End, Little Girl" chiude un bellissimo disco di blues classico, arricchendolo di un nuovo episodio ad alta emozione: Hubert canta pure, ed è una novità, mentre si fa accompagnare nei guitar solo da uno dei suoi principali ammiratori, Keith Richards, presente anche nella lunga e ispirata "Still a Fool", ove è vocalist principale, e in "I Love the Life I Live, I Live the Life I Love", un’altra vetta dell’opera punteggiata da piano e basso da brividi per merito dei veterani David Maxwell e Mudcat Ward.
Non poteva mancare nell’operazione un altro pezzo da novanta legato indissolubilmente all’epopea del mitico chitarrista statunitense, “Mr. Manolenta” Eric Clapton. Due standard come "I’m Ready" e "Long Distance Call" assumono nuove sfumature e non solo per i ricami, le note cesellate di "Slowhand", ma anche per le ritmiche rispettose delle dodici battute di uno straordinario Levon Helm, già a suo agio ai tempi di The Band con canzoni mutuanti le radici dell’universo musicale a stelle e strisce. Un altro elemento che fa da collante “storico” in tali magistrali interpretazioni è Bob Margolin, il leggendario chitarrista della band di Muddy Waters. Pur rimanendo a volte sullo sfondo, la sua incredibile bravura è quella di riempire i momenti vuoti di ogni brano con i suoi fraseggi e sostenere la melodia con accordi delicatamente pungenti. "She’s into Something" (con James Cotton alla french harp!), "Iodine in my Coffee", "Look What You’ve Done" e "Come Home Baby" ne sono spettacolare esempio, e l’incrocio con le doti virtuose di Sumlin fanno decollare le esecuzioni, accontentando in tal guisa sia i puristi per lo stretto legame con gli originali, sia gli amanti del cambiamento per freschezza e vivacità.
Paul Oscher, istrionico armonicista e cantante anch’egli ai servigi di Waters rappresenta un altro fiore all’occhiello della raccolta e oltre a cimentarsi nel suo strumento, in "Don’t Go No Farther" e "Walkin’ Thru the Park", solo per citare le performance maggiormente intense, si diletta alla slide in "Evil", in cui alla voce si esprime con grinta e autenticità l’intenso Nathaniel Petterson.
Ascoltare About Them Shoes è al pari di tuffarsi in un torrente di montagna durante una calda estate, la musica scorre tersa e fluida come acqua di sorgente e porta dolcemente sulla sponda di uno degli highlight, "The Same Thing", dominato dai tipici scoppi di note frantumati, con improvvisi silenzi seguiti a precipizio da audaci sospensioni ritmiche: il tipico marchio di fabbrica di Hubert Sumlin. E non sorprende per nulla il fatto che ci sia David Johansen (alias Buster Poindexter) alla voce. L’istrionico leader dei New York Dolls si è spesso esibito live insieme al padrone di casa proprio negli ultimi anni della sua esistenza.
Il 2011 era visto come una tappa fondamentale per la vita di Hubert Sumlin. Un mega concerto in suo onore, ricco di ospiti e amici adoranti la sua musica avrebbe dovuto celebrare insieme a lui gli ottant’anni compiuti. La morte per insufficienza cardiaca, dopo aver subito sette anni prima un delicatissimo intervento ai polmoni, avvenuta il 4 dicembre nel New Jersey, dove si era da tempo trasferito, non ha comunque fermato il tributo.
L'intero spettacolo, svoltosi in New York City all’Apollo Theater il 24 febbraio 2012, ha visto la partecipazione di all-stars come Buddy Guy, Billy Gibbons, Warren Haynes, Jimmie Vaughan, Derek Trucks, Doyle Bramhall II ed Elvis Costello, oltre ovviamente a Clapton, Richards e il “blood brother” James Cotton, ed è stato uno di quelli che hanno fatto la storia. La sempre immutata positività e la passione per il suo strumento sono state ricordate ripetutamente dai partecipanti, e, a un certo punto, Toni Ann Mamary, manager e compagna di lunga data di Sumlin, ha ricordato in lacrime ciò che le disse alcuni mesi prima, ormai molto affaticato: «Ci sarò. Non mi importa se suonerò, ci sarò». E aveva ragione, il buon vecchio Hubert. Seppur non fisicamente, seppur non suonando, con la sua anima quella notte era lì, a godere della musica che ha rappresentato la sua vita, rendendolo venerato e indimenticabile.
Hubert Sumlin era un incisivo ma delicato suonatore di blues", un meraviglioso contrappunto per lo stile vocale ringhioso di Howlin' Wolf…era un'ispirazione per tutti noi". (Estratto di intervista a Mick Jagger da Rolling Stone, 8 dicembre 2011)
Come dice una canzone di About Them Shoes, “Amo la vita che vivo, vivo la vita che amo”.