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Abbandonare un gatto
Murakami Haruki
2020  (Einaudi)
LIBRI E ALTRE STORIE
all THE BOOKSTORE
11/01/2021
Murakami Haruki
Abbandonare un gatto
Il libro è un susseguirsi di pagine affascinanti, delicate, poetiche ma anche dure, ricche di considerazioni profonde sul senso della vita, sul destino e sui rapporti umani. C’è tanta consapevolezza, frutto dell’elaborazione lucida di un rapporto “mancato”, che però, finché è durato, ha lasciato segni profondi, nel bene e nel male.

"Noi tutti non possiamo che respirare l'aria del nostro tempo,
sopportarne il peso e crescere dentro la sua cornice.
Non è né un bene né un male, semplicemente funziona così."

Il 7 ottobre del 2019, sul New Yorker, è apparso un racconto autobiografico di Murakami, intitolato “Abandoning a cat – Memories of my father.

Quel racconto, ora, è diventato un piccolo libro che ricorda tanto quelli delle fiabe per bambini, con la copertina rigida e le pagine spesse e vellutate, in cui le parole di Murakami sono accompagnate dagli splendidi disegni di Emiliano Ponzi - uno degli illustratori italiani più famosi e apprezzati al mondo - che cristallizzano e condensano i ricordi del “piccolo” Haruki in immagini piene di vita e colore.

Una manciata di pagine attraverso le quale Murakami parla per la prima volta della sua infanzia, della sua famiglia, ma soprattutto di suo padre.

Il racconto scorre lento, un po’ come il flusso di certi pensieri che hanno bisogno dei loro tempi per affiorare e trasformarsi in concetti universali, comprensibili a tutti, nel loro significato più profondo.

Le parole sono ordinate e composte, disciplinate, quasi “frenate”. Si coglie un grande rispetto e un certo timore reverenziale nel descrivere la figura di un uomo “complesso”, per forma mentis e vissuto, con cui, ad un certo punto, è venuta a crearsi una frattura talmente profonda da portare i due a una distanza fisica ed emotiva durata più di vent’anni.

“È solo poco prima della sua morte, che mio padre e io ci siamo finalmente rivisti. Io avevo quasi sessant’anni, lui novanta ed era ricoverato all’ospedale di Nishijin di Kyoto.”

Impossibile non sentire il peso del rimorso che aleggia sulla narrazione, soprattutto nelle pagine finali, che sono quelle più “personali”, anche se Murakami cerca di glissare e stemperare per focalizzarsi su altri aspetti ed evitare, così, di addentrarsi in un discorso che rischierebbe di diventare troppo intimo.

Si coglie il rimpianto per il tempo perso, che purtroppo non può in alcun modo esserci restituito e il senso di colpa sorretto e alimentato da quelle domande senza fine con cui ci chiediamo se abbiamo agito nel modo giusto, se potevamo farlo meglio, o magari in un modo completamente diverso; perché quando ci si allontana da un genitore, non lo si fa mai a cuor leggero, anche quando le motivazioni sono più che plausibili.

“Siamo cresciuti in due ambienti diversi, appartenevamo a due generazioni diverse. Non avevamo la stessa concezione della vita e della società, è chiaro. Ero ancora giovane, avevo moltissime cose da realizzare, e avevo chiaro in testa lo scopo da perseguire. E questo per me era ben più importante delle complicate relazioni tra padre e figlio.”

La verità è che i rapporti tra genitori e figli non sono quasi mai semplici e nonostante certe decisioni risultino particolarmente dolorose - sia per chi le prende che per chi le subisce – quando trovare un punto d’incontro diventa difficile o addirittura impossibile, separarsi appare quasi inevitabile.

La distanza sembra essere l’unico modo per proteggersi; sembra essere l’unica via d’uscita per la “salvezza” emotiva e per l’affermazione di ciò che siamo, perché il segreto per vivere in pace, o perlomeno provarci - beato chi lo capisce per tempo - è quello di agire e sbagliare sempre con la propria testa e non solo per far felici gli altri o per non tradire le loro aspettative.

Però, c’è sempre un conto da pagare, e quello che ci presenta il senso di colpa, certe volte, non ci lascia scampo: “Ancora oggi, malgrado tutto, continuo ad avere la sensazione – o per lo meno il vago sospetto – di aver sempre deluso mio padre, di aver tradito le sue speranze.”

Chiaki Murakami era un uomo semplice, “un uomo qualunque”, che da ragazzo studiava per diventare un prete buddista, esattamente come suo padre. Non è chiaro, però, se lo facesse con convinzione o per dovere.

All’età di 20 anni, nel pieno del suo percorso accademico - a causa di un errore burocratico - venne arruolato nell’esercito imperiale giapponese, sottoposto a un addestramento estenuante e mandato a combattere in prima linea, dove, suo malgrado, ha vissuto esperienze atroci che lo hanno segnato profondamente.  

Un grande studioso, con l’hobby degli haiku, amante dei libri, prete buddista mancato e soldato per sbaglio. Si è laureato tra una chiamata alle armi e l’altra ed è diventato uno stimatissimo insegnante di letteratura giapponese. Un uomo dalla mente brillante, tenace e determinato, marchiato irrimediabilmente dalla guerra, da un’infanzia difficile e dal senso del dovere.

Il racconto inizia con l’episodio che dà il titolo al libro e cioè quello in cui Murakami bambino e suo padre vanno in bicicletta fino alla spiaggia per abbandonare un gatto. Episodio definito “banale” dall’autore, ma che in realtà è, al contempo, filo conduttore e punto d’arrivo dell’intera narrazione perché quando si arriva a leggere l’ultimo rigo, non si può fare a meno di pensare che ogni singolo frammento della nostra vita - anche la più piccola e insignificante delle esperienza - ci resta dentro, ci si appiccica addosso e contribuisce a scrivere la nostra storia e a renderci ciò che siamo, e quel che siamo, ce lo portiamo dietro per sempre, perché “La storia non appartiene al passato. È qualcosa che fluisce nella coscienza umana, o forse nell’inconscio, è una corrente di sangue vivo e caldo che, volenti o nolenti, ci trasmettiamo da una generazione all’altra.”

Il libro è un susseguirsi di pagine affascinanti, delicate, poetiche ma anche dure, ricche di considerazioni profonde sul senso della vita, sul destino e sui rapporti umani. C’è tanta consapevolezza, frutto dell’elaborazione lucida di un rapporto “mancato”, che però, finché è durato, ha lasciato segni profondi, nel bene e nel male.

Non c’è spazio per il risentimento, anzi, Murakami parla di suo padre con amore, orgoglio e comprensione, perché la vera salvezza, forse, risiede nell’accettare e nell’interiorizzare che tutte le cose, alla fine, vanno come devono andare, perché, nonostante i nostri sforzi, è sempre il caso a decidere il corso degli eventi e la storia, quella che possiamo raccontare, è “l’unica eventualità, fra innumerevoli altre, che si è attuata, senza se e senza ma”, perché gli esseri umani, in fondo, non sono altro che “anonime gocce di pioggia che cadono su una vasta pianura”.

“Gocce di pioggia” che pensano, agiscono e vivono come possono, tra momenti di tempesta e altri di calma; a volte in armonia con gli eventi e altre volte in opposizione. Ciascuno di noi, però, con la sua storia personale, con il suo piccolo frammento di vita, contribuisce ad alimentare e nutrire la storia del mondo e quella dell’intera umanità.

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