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REVIEWSLE RECENSIONI
30/05/2020
Sparks
A Steady Drip, Drip, Drip
Il ritorno dei fratelli Mael con il consueto disco di pop eccentrico e sbarazzino, questa volta però dagli esiti altalenanti

I fratelli Ron e Russel Mael, ovvero gli Sparks, stanno sulla cresta dell’onda da quasi mezzo secolo. Un traguardo ragguardevole, condiviso con poche band al mondo, che li vede oggi pubblicare A Steady Drip, Drip, Drip, venticinquesimo album ufficiale nella storia della band. Un storia fatta di alti e bassi, di dischi favolosi e di lavori prescindibili, sempre all’insegna di un pop eccentrico, colto, umoristico, declinato nel corso del tempo con accenti e stili diversi.

Dalle sonorità decadenti e glam dell’iconico Kimono My House, capolavoro datato 1974, all’elettricità rock di Big Beat (1976) dall’easy listening in chiave americana di Introducing Sparks (1977), all’elettronica e al technopop sotto l’egida di Giorgio Moroder (N°1 In Heaven del 1979 e Terminal Jive dell’anno successivo), fino alla sperimentazione barocca e classicheggiante di Lil’ Beethoven (2002), i fratelli Mael hanno spaziato in lungo e in largo, dando vita però a un suono immediatamente riconoscibile, attualizzato nel corso dei decenni, ma fedele alla propria attitudine melodica.

Sull’onda lunga degli elogi che avevano accompagnato il precedente Hippopotamus (2017), il duo losangelino torna con un nuovo album che contiene la summa dello Sparks-pensiero, palesando in egual modo momenti di classe assoluta e quei difetti che da sempre accompagnano i momenti meno brillanti della band.

Le quattordici canzoni che compongono la scaletta di A Steady Drip, Drip, Drip, infatti, pur nella loro diversità stilistica, sono spesso strutturate su una sola idea melodica reiterata senza soluzione di continuità, cosa che produce un effetto sicuramente bizzarro e straniante, ma che talvolta risulta decisamente stucchevole (il lalalla di Lawnmower e Sainthood Is Not In Your Future risultano di una banalità che rasenta il fastidio).

A parte qualche episodio clamorosamente kitsch (la dance in chiave spanoleggiante di Left Out In The Cold), quando l’idea funziona gli Sparks azzeccano canzoni all’altezza della loro fama. Il rock con spruzzate glam di I’m Toast, l’ariosa e al contempo malinconica Pacific Standard Time, il falsetto e la melodia per pianoforte della splendida One For The Ages (queste due ultime canzoni testimoniano come gli Sparks siano stati i padri putativi dei Pet Shop Boys), le caricaturali e cabarettistiche Stravinky’s Only Hit e Onomata Pia o l’invettiva elettronica contro i cellulari (I-Phone) sono quei numeri da fuoriclasse che ci si aspetta sempre dai fratelli Mael.

Purtroppo, non tutto il disco è all’altezza dei brani citati, e se è vero che agli Sparks non mancano il consueto piglio sbarazzino, abbondanti dosi di intelligente ironia e eccentrica irriverenza, il livello di ispirazione è altalenante, come dimostrano episodi deboli quali The Existential Threat e, la seppur meritevole in chiave ambientalista, Please Don’t Fuck Up My World, troppo melodrammatica per essere credibile.


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