Ci sono due momenti emblematici che trasmettono perfettamente l’idea del pressapochismo con cui la tv generalista italiana e i suoi attempati conduttori - altrettanto generalisti - trattano i fenomeni musicali più iconoclasti della musica pop (ma in generale tutta la musica): Mike Bongiorno che chiede a Martin Gore se è un maschio o una femmina - ancora oggi Youtube gronda di vergogna - e Gianni Boncompagni che, introducendo l’esibizione in playback di Plastic Bertrand a Discoring, traduce “Ça plane pour moi” con un imbarazzante “Questo aeroplano è per me”.
Altro che lost in translation. Non è una questione di conoscere o no la lingua francese, piuttosto una legge naturale che, a scuola, si insegna sin dalla prima versione in classe di qualunque lingua si approcci, non importa se viva o morta: se in italiano non ha un senso compiuto, probabilmente alla base c’è un problema. Possibile che Gianni Boncompagni, leggendo i dialoghi che la produzione gli avrà fornito prima di andare in onda, non si sia accorto che “Questo aeroplano è per me” non significa un cazzo?
“Ça plane pour moi” invece è un modo francese per dire che “va tutto alla grande” e traduce, nel titolo di uno dei brani più famosi della storia del genere musicale più pazzo del mondo, uno stato d’animo nichilista ed epicureo post-scopata, in un contesto decisamente punk.
E qui perdonatemi, perché è il momento di fare dei distinguo. Se tutti vogliono insegnarci che cos’era il punk, anche io voglio dire la mia a proposito. C’è chi il punk lo preferisce duro e puro a combattere la legge (anche se, a parte l’accezione di Jello Biafra, è sempre la legge a vincere). C’è chi il punk lo vuole anarchico, tossico e stravaccato sui marciapiedi con dei cani randagi appresso. Chi pensa che siano punk i Green Day e gli Offspring e tutta quella roba alla Blink 182 che passavano su MTV. C’è poi la fazione della grande truffa del punk, quella delle svastiche sulla maglietta per far parlare di sé, di Malcolm Mclaren e Vivienne Westwood e il resto del circo che, comunque, incarna la vera essenza del punk, quella di fottersene di tutto e tutti, rubare ai ricchi ascoltatori per dare a se stessi. No future e, nell’attesa, troviamo tutti i modi per fare dei soldi.
D’altronde, privo del rigore, dell’autorevolezza e persino della storiografia che oggi l’Internet conferisce a qualunque sciocchezza frutto del genere umano, il punk raccontato dai canali media italiani mainstream all’ascoltatore italiano mediamente mainstream, alla sua uscita somigliava più a un fenomeno da baraccone che a un movimento di ribellione. Di tutto il sistema emergevano sicuramente la musica ma, soprattutto, l’estetica, la moda e le spille da balia a perforare le guance. Pensate solo ad Anna Oxa a Sanremo nel ‘78: a quell’epoca ci si vestiva da punk a carnevale trascendendo il senso di fenomeno di costume. E sotto questo punto di vista, il progetto “Ça plane pour moi” ha centrato perfettamente l’obiettivo. Persino uno come Joe Strummer ne ha parlato bene. Un pezzo dannatamente buono in grado di far muovere i piedi anche ai morti, dirà della hit portata al successo da Plastic Bertrand. Aggiungendo che, ai tempi dei Clash, tra i puristi non si poteva nemmeno menzionare ma, probabilmente, era molto meglio di molti altri dischi considerati ortodossi.
Il fatto è che nel 1977 circolano due canzoni con la stessa base musicale registrata da tre sessionman - dotati di una certa dimestichezza nella tecnica del glam-punk dell’epoca - in uno studio di Bruxelles. La prima è “Jet Boy, Jet Girl”, brano interpretato dal cantante degli Elton Motello, band inglese di passaggio in Belgio per un tour. La seconda è “Ça plane pour moi”, cantata dall’autore stesso della musica del brano (il compositore e produttore belga Lou Deprijck, un volpone oggi noto anche per essere stato il leader dei Two Man Sound, quelli di “Disco Samba” o, meglio, la vera sigla dei trenini che non portano a nulla ma, nel mentre, ti consentono di festeggiare il nuovo anno o una sconfitta elettorale di un partito di destra) e unita a un compendio di cliché del punk londinese, ridotto a testo scritto da Yvan Lacomblez.
La canzone probabilmente non supera i confini del Benelux sino a quando Deprijck scopre Plastic Bertrand e punta tutto - compresa la sua hit - su una produzione in perfetta linea con i tempi e con quel punk da “tutto quanto fa spettacolo”. Non si sa bene come sia andata la cosa, ma il singolo esce con la voce di Deprijck e la faccia di Plastic, sicuramente più convincente da un punto di vista commerciale e con una coreografia per le esibizioni decisamente più appropriata.
Un buon affare, con il senno di poi, se consideriamo le 900mila copie vendute in tutto il mondo e le diverse scalate ai piani alti delle chart internazionali. Negli USA “Ça plane pour moi” supera "Je t'aime... moi non plus" tra le melodie in lingua francese più conosciute. In Italia diventa una canzone per tutti, dai più grandi ai più piccini: piace molto quel cantante strambo che saltella nei più popolari programmi TV con il suo scioglilingua da baguette. E meno male che, oltre a Boncompagni, dalle nostre parti in pochi masticano bene lo slang francese, perché nel testo si parla di sesso sullo zerbino, misteriosi flash a quattro colori, ragazze discinte e consenzienti e postumi da bisboccia. Considerati i tempi, ci sarebbero stati tutti gli estremi per l’ostracismo, nell’austera tv di matrice democristiana.
Scambiata per un orecchiabile vaniloquio onomatopeico, la hit di Plastic Bertrand sfonda una backdoor e, come succede nei virus informatici, prepara l’infiltrazione di molto altro punk, sia sul versante pop che su quello culturale, ben più rischioso per le convenzioni sociali. Del resto la canzone contiene diversi fattori che trasmettono sicurezza anche al pubblico più borghese: tutto sommato è suonata bene e in modo preciso (si capisce, insomma, che dietro a chitarra e batteria non ci sono musicisti realmente punk) e poi c’è quel sax un po’ rock’n’roll vecchio stile che doppia la tonica degli accordi, un escamotage che aggiunge tiro al brano - come se ne avesse bisogno - e che ricorda certe atmosfere glam dei Roxy Music.
Perfetta per il pogo, “Ça plane pour moi” ha avuto diverse re-interpretazioni nel tempo, a partire da quella di Deprijck stesso nel 2006, un remake originale più che una cover e tale da suscitare una querelle legale tra il produttore e Plastic Bertrand stesso su chi avesse davvero prestato la voce al successo del 77. Oltre a quelle celebri dei Telex - quasi contemporanea - e dei The Presidents of the United States of America, la versione più originale risulta però quella techno-punk di Leila K, anni luce da quelle lagne dei Nouvelle Vague che l’hanno inclusa nel loro terzo capitolo di una formula diventata pallosa già nel primo. Grazie al suo brano d'esordio, Plastic Bertrand è diventato poi il personaggio che conosciamo, a metà tra macchietta da Eurovision Song Contest e canzonette da juke-box. Di punk in lui è rimasta solo l’indole, la capacità di adattarsi a dove tira il vento del mercato. Che poi, del punk, è la morte sua.