Lo ammetto, ho un difetto. Beh, questo non è proprio vero; in realtà possiedo una borsa piena di difetti; in maniera del tutto plausibile, con il passare del tempo (leggi anche "invecchiando"), è possibile che ne stia raccattando altri in giro da mettere e conservare nel borsone (borsa mi sembra riduttivo ora che ci penso). D'altronde sono da sempre un discreto accumulatore, almeno con le cose che mi garbano, cosa volete che sia qualche difettuccio in più. Ogni tanto mi libero anche di qualcosa ma i difetti non so, mi pare siano più o meno sempre tutti lì.
Uno dei miei difetti è, per esempio, che non mi ricordo le cose. E infatti ora non ricordo bene perché io abbia iniziato a scrivere questo pezzo che dovrebbe vertere sulla raccolta di racconti A ovest dell'inferno di Jonathan Lethem parlandovi dei miei difetti. Come dicevo è un mio difetto. Un altro mio difetto è che scrivendo uso troppe parentesi, ne sono consapevole, ma me ne frego (e questo potrebbe essere un altro difetto, il fatto che io me ne freghi intendo). E riecco le parentesi. Poi inizio le frasi con le congiunzioni, con i "ma" e con quello che mi pare e me ne frego anche di questo.
Nel frattempo sto cercando di ricordare che cosa avrei dovuto scrivere su Lethem, forse sto solo divagando perché sull'antologia in questione non è che abbia proprio un granché da dire, questo però non lo reputo proprio un difetto, più che altro lo vedo come un tentativo malriuscito di supercazzola nella speranza di prender tempo e accumulare righe, cosa che (visto che siamo già a riga 17, almeno sul mio programma di videoscrittura, quando leggerete voi chissà) sta anche parzialmente riuscendo, se riuscissi a resistere e infilare qualche altra fesseria avremmo già bella e pronta una discreta (come mole) introduzione. Un'introduzione ovviamente piena di difetti. E di parentesi. Ora vado a guardarmi un film, al resto ci penserò dopo, se ne avrò voglia. Magari mangio anche un gelato. A dopo.
Ciao, riprendo a scrivere dopo una pausa di circa ventiquattro ore che voi magicamente non avvertirete. Tra l'altro il film non era niente di che (Quello che tu non vedi) ma il gelato non era male. Devo anche finire di guardare Fringe di J. J. Abrams, mi mancano quattro episodi, ma cercherò di resistere e portare a termine questo pezzo, anche se ancora non ho bene idea di come.
A ovest dell'inferno è un'antologia di racconti di Jonathan Lethem, sei per la precisione, che in realtà in lingua originale non trova nessun corrispettivo, è una compilazione che è stata assemblata direttamente da Minimum Fax con l'aiuto e la supervisione dello stesso Lethem e che quindi potremmo dire nasca appositamente per il pubblico italiano. L'antologia è divisa in due parti, una prima che presenta tre racconti brevi dai toni fantastici o fantascientifici e una seconda con tre pezzi autobiografici decisamente più sfiziosi e interessanti dei tre precedenti.
Dopo aver letto i primi tre racconti di fantasia il pensiero che a più riprese si è fatto largo nella mia mente è stato: "vabbè dai, due euro al Libraccio, chi se ne frega"; per fortuna poi sono arrivati gli scritti di real life (che tra l'altro si portano dietro tanto cinema) e il giudizio complessivo è decisamente migliorato (sempre in relazione ai due euro spesi).
Sinceramente dei primi tre racconti non saprei che pensare, mi sono sembrati tre esercizi di non stile di un'inutilità disarmante e sinceramente insignificanti sotto ogni punto di vista, giudizio probabilmente reso più pesante dal fatto che il mio unico precedente con la scrittura di Lethem sia stato il romanzo La fortezza della solitudine, successivo a questi racconti, una lettura che adorai e che quindi mi portò ad approcciare A ovest dell'inferno con aspettative troppo alte per una modesta compilazione come questa.
Il primo racconto (La forma in cui siamo) verte su un padre che parte per un viaggio alla ricerca del figlio Dennis in compagnia del di lui miglior amico Balkan. La particolarità è che tutti abitano all'interno di un organismo vivente non ben identificato, i nostri viaggiatori partiranno da qualche punto in basso diretti verso l'occhio, l'organo più illuminante del lotto. In Come entrammo in città e come ne uscimmo un gruppo di uomini e donne partecipano a un gioco a eliminazione ambientato in una realtà virtuale che è anche l'unico modo di trovare cibo e riparo in una società ormai al collasso. Il gioco ovviamente comporta qualche rischio. Chiude la prima parte Videoappartamento: in un mondo in lenta migrazione continua su un'autostrada a uno dei protagonisti capita di vedere inciso su nastro un omicidio avvenuto nel mondo degli appartamenti, oltre la barriera. I tre racconti sembrano privi di direzione, costruiti su idee deboli e senza un reale perché. Perché Lethem avrebbe dovuto scrivere questi racconti che non dicono nulla, non emozionano né coinvolgono, non innovano e non inventano e che persino a più tratti annoiano? Ma soprattutto perché io (o voi) dovremmo volerli leggere?
Va molto meglio con In difesa di Sentieri Selvaggi, con Elliott ancora non mi crede e con 13, 1977, 21. Intendiamoci, anche qui nulla di trascendentale ma almeno ci sono sprazzi di verità e passione, l'ossessione di Lethem per Sentieri selvaggi di John Ford e per Star Wars di Lucas, racconti di uno strano viaggio, riflessioni sincere su quanto a volte ci si faccia prendere la mano, anche incondizionatamente, da nostre fissazioni immotivate o basate su fondamenta barcollanti, e ancora risvolti familiari e tocchi personali che in qualche modo ricordano ciò che poi si svilupperà proprio nel posteriore La fortezza della solitudine. Nel complesso non si può dire che ne valga proprio la pena, però se lo trovate a due euro al Libraccio, alla fine chi se ne frega.