Ascoltare Steve Von Till è un po’ come cercare di scalare una montagna in infradito: molti si stancheranno alla prima pendenza e lasceranno perdere; gli altri, quelli risoluti a non mollare, quando arriveranno in cima, saranno appagati da tanto sforzo e si troveranno innanzi a uno spettacolo mozzafiato. La musica del cantante, chitarrista e songwriter statunitense, inutile girarci intorno, è ostica da morire. Lo è quando milita con i Neurosis, visionari dello sludge metal più doom, e lo è, a maggior ragione, quando cambiando habitus mentale e formale, Von Till segue il percorso di canzoni che sembrano provenire da una realtà parallela.
A Life Unto Itself (al netto, non dimentichiamocelo, del progetto Harvestman) è il quarto capitolo di una discografia solista, senza una pecca e granitica per rigore artistico, che ha raggiunto il suo apice con If I Should Fall To The Field del 2002, apice, ora forse superato, da questo ultimo, bellissimo lavoro (solo la prospettiva del tempo ce lo saprà dire). Niente metal, niente doom, niente noise: il Von Till solista è un eremita del fingerpicking che, lontano da tutti, estraneo al mondo che lo circonda, dalle mode e dai suoni consueti, coltiva la sua concezione di americana in bilico fra esoterismo, psichedelia e visione.
Accostarsi alle sette canzoni che compongono la scaletta del disco è un po’ come immergersi nel Lete, dimenticare il passato e le certezze, abbandonarsi al fluire obnubilante della musica, per risvegliarsi in un altrove di immense praterie e pece nerissima. Sette brani che ipnotizzano e la cui struttura melodica si compone di patterns acustici che, ripetuti all’infinito, celano trame disturbate di chitarra elettrica ed esaltano la voce cavernosa e ascetica di Von Till.
Si parte con In Your Wings e la coltre è attraversata da brevi barbagli di luce. Poi, inizia un lungo piano sequenza di strazianti malinconie, che svaniscono in una maestosa caligine morriconiana (Known But Not Name), si sciolgono in lacrime nel funerale celtico di A Language Of Blood o si perdono negli spazi e nei silenzi della title track, un brano che dilata all’inverosimile quel suono “americano” che attraversa tutto il disco.
A prescindere da ogni tentativo di spiegare cosa si celi in questi quarantacinque minuti di musica, ciò che resta alla fine dell’ascolto è l’appagante sensazione di aver vissuto un’esperienza extrasensoriale, consapevoli della propria finitezza fisica, presenti alle nostre malinconie, ma spettatori fluttuanti sopra il mondo senziente. Come arrivare in cima, e perdere la nostra piccola anima nell’infinita maestosità dell’orizzonte. Intimismo per spazi aperti.