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REVIEWSLE RECENSIONI
04/02/2021
Anna B Savage
A Common Turn
Sono passati più di cinque anni da “Ep”, l’esordio discografico di Anna B Savage. Quasi un’era geologica, se consideriamo quanto veloce si muova il nostro presente e quanto il silenzio prolungato sia spesso il mezzo più scontato per farsi dimenticare.

Le ragioni di questo iato le ha raccontate lei stessa in “Dead Pursuits”, uno dei primi singoli estratti da “A Common Turn”, il suo primo full length, che inaugura il sodalizio con la City Slang. “I don’t remember how to dance/The beats changed/I don’t remember how to be me/I’m not the same” canta con la trasparenza di chi non ha nulla di cui vergognarsi e di chi, oltretutto, ha intenzione di utilizzare le canzoni per raccontare il proprio vissuto più intimo. A metà tra una seduta di analisi e un esperimento di meta scrittura, “Dead Pursuits” evoca la difficile lavorazione del nuovo disco, lo stupore del sentirsi cambiata e di non sapere se dipenda più da se stessi o dalla realtà circostante; la fragilità e l’insicurezza del non ritenere all’altezza il nuovo materiale composto, con tanto di struggente domanda, nel finale di canzone, quando le plettrate sulle corde crescono d’intensità e la voce sale sempre di più, come per cercare qualcosa che si era perduto: “Will I ever record this?”.

Sì, alla fine l’ha registrata. Questa e altre nove, che vanno a comporre un lavoro solido e maturo, un passo avanti così deciso rispetto all’Ep, che viene davvero da ammettere che ne è valsa la pena, di attendere cinque anni. Si è avvalsa della collaborazione di William Doyle (East India Youth), da sempre uno dei suoi punti di riferimento, contattato in maniera spontanea dopo aver visto un suo post su Facebook che invitava i musicisti che avessero voluto, a spedirgli del materiale, che lui l’avrebbe prodotto. Alla fine hanno lavorato insieme a tutte le tracce ed è stato fondamentale per fornire ulteriori strati di significato ad un album che in caso contrario avrebbe forse rischiato di sfociare in una mera rilettura degli stilemi del più classico Folk. Invece, le spruzzate di elettronica che emergono qua e là, le orchestrazioni discrete e i beat leggeri di “Bedstuy”, i tappeti di riverberi in “Corncrakers”, l’esplosiva intensità della title track, o esperimenti più radicali come le due metà in cui è idealmente divisa “Two”, con una strofa acustica e un ritornello cupo e quasi Upbeat, dove spicca una tessitura Electro più marcata, sono tutti elementi che danno respiro e dinamica. Arrangiamenti e produzione contano senza dubbio ma poi ci sono anche le canzoni: Anna ha migliorato la propria scrittura e adesso il fluire libero delle strutture e delle melodie, quella libertà creativa che aveva impressionato Father John Misty e Jenny Hval al punto da invitarla ad andare in tour con loro, è ancora presente ma si è messa al servizio di una più coerente costruzione del pezzo, tanto che nelle sue canzoni, pur intricate e ipnotiche, non si rischia mai di smarrire la strada.

A metà tra Joni Mitchell e Tim Buckley, con un background di ascolti che vanno dalle Spice Girls agli Arcade Fire (lo lascia intravedere lei stessa nei testi delle nuove canzoni), un uso della voce sempre più personale, col timbro scuro e profondo messo al servizio di composizioni che sono un flusso di coscienza senza grandi sprazzi di luce. Una confessione a cuore aperto che a breve diventerà anche un film, girato da Jem Talbot, con cui in passato ha avuto una storia, la sua prima davvero importante. Dopo essersi lasciati non si sono più visti né sentiti per tre anni, poi il riavvicinamento e la decisione di scrivere della loro relazione, lui con un film, lei con un disco. È un’esperienza strana, guardare il video di “Baby Grand”, che costituisce anche un’anticipazione di quello che vedremo sullo schermo quando l’omonima pellicola sarà disponibile (la data esatta non la sappiamo ancora). Ci sono due attori che impersonano Anna e Jem e che si muovono a ricreare minuziosamente ogni gesto descritto nella canzone. La quale è, allo stesso tempo, una descrizione fin troppo minuziosa degli ultimi istanti passati insieme dai due, il tentativo di rievocare e mettere in scena il passato ad un livello di intensità e consapevolezza talmente spinto che rischia di risultare disturbante. Come accade anche in “Chelsea Hotel #3”, rimando ammiccante al classico di Leonard Cohen, citato esplicitamente nel primo verso ma utilizzato anche come corredo di scena, uno stereo che suona proprio quella canzone. E si parla di masturbazione, di orgasmi e di un’eccitazione procurata guardando Tim Curry in “Rocky Horror Picture Show” (lei stessa ha dichiarato essere stata la sua prima fantasia sessuale). Forse è più di quanto si potrebbe pensare essere lecito, forse, si dirà qualcuno, ad un’artista non è concesso di raccontarsi fino a questi intimi dettagli; o forse, al contrario, proprio in quest’epoca di artificioso politically correct, la tanto conclamata liberazione femminile passa anche da questa libertà di mettersi a nudo, senza temere giudizi e commenti. Quella libertà che inseguono le sterne che danno il titolo al disco, il cui volo è contemplato con malinconia e un pizzico d’invidia dai due protagonisti, mentre riflettono sulla loro vita.

Così come anche questa fragilità raccontata con disinvoltura, fino a farla diventare un punto di forza. Ha detto anche, come battuta ma forse no, che non leggerà nessuna recensione di “A Common Turn”, per non rischiare di deprimersi e di metterci altri cinque anni a far uscire un nuovo disco. Chissà, forse sarà la scelta giusta. Ma dubito che arriveranno recensioni negative, con canzoni così. Lei in ogni caso è ottimista sul futuro, visto che ha già annunciato un tour europeo tra ottobre e novembre. Dalle nostre parti la vedremo a Torino, pandemia permettendo, sarà un concerto da non mancare.


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