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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
18/03/2024
The Silencers
A Blues for Buddha
Rock, folk, pop e new wave convivono in un disco dal fascino antico, opera degli scozzesi Silencers. "A Blues for Buddha", pubblicato nel 1988, tuttora ammalia e colpisce nel profondo dell’animo per l’attualità dei testi e gli arrangiamenti geniali, curati da un vero mago della produzione. È davvero un piacere, quindi, “rispolverarlo”.

«L’unica cosa di cui la tristezza ha timore sono le cornamuse».

(Frase riportata sul retro-copertina del disco)

 

Il nome di questo album non è stato scelto a caso. Guerra, morte, religione, sofferenza spirituale (e per amore), lacrime, sangue, lavoro, discriminazione e ingiustizia sono i temi che rimbalzano senza fermarsi nelle dieci canzoni. Sono brani che trasudano vita e il desiderio di staccarsi da un’esistenza dolorosa alla ricerca di un’oasi di pace, sia essa un viaggio mentale e meditativo dentro se stessi, o di più ampio respiro nella natura sconfinata, verso il mare e un orizzonte dal diverso colore, lontano dai rumori e dal cemento delle città moderne, costruite senza anima e ricolme d’odio. E una possibile salvezza può giungere anche dalla musica, nel cantare una melodia triste per esorcizzare il tormento e sentirsi più liberi e felici, o meglio senza dolore, senza il fardello dei peccati di un’intera umanità a cui si appartiene. Si può alimentare la speranza suonando un blues, un blues con le cornamuse, un “blues celtico”, “Un Blues per Buddha” in un percorso che allontani dalle brutture del mondo.

Partendo da questi presupposti i Silencers mescolano nel loro secondo disco tutte le loro influenze, dal folk antico al pop rock, passando per la corrente musicale più in voga in quel momento, la new wave. Utilizzano una strumentazione tradizionale, filtrandola con le modernità proposte dall’istrionico Flood, il virtuoso produttore di sonorità ambient a cavallo tra synth pop ed elettronica, colui che ha indirizzato lo scenario post punk e si è sbizzarrito a sparecchiare e riapparecchiare la tavola di una pletora di artisti e gruppi, da Nick Cave agli U2, arricchendo di nuovi sapori la loro musica. In A Blues for Buddha il geniale sound engineer suggerisce alcuni accorgimenti dimostrandosi molto pragmatico: avendo notato tanta sostanza nelle canzoni e nelle liriche, si preoccupa principalmente della forma e lo fa con intuito, leggerezza e intelligenza, per non stravolgere il gran lavoro svolto da Jimme O’Neill e compagni.

Così, accanto all’epicità delle cornamuse, al retaggio ancestrale del violino, suonati dagli special guests John Nevans e David Crichton, si distendono spesso atmosfere rarefatte, create dalla chitarra solista di Cha Burns, che si interseca con quella ritmica di O’Neill, il tutto ben coadiuvato da basso e batteria di Joseph Donnelly e Martin Hunlin. Un quartetto ben affiatato quello dei Silencers, costituitosi a Londra nell’87, ma con il cuore pulsante a Glasgow, la città di origine. La città della pioggia, “Raintown”, da cui giungono nomi celebri e spiriti affini come i Simple Minds (il bassista Donnelly è cugino di Jim Kerr) e i Deacon Blue.

 

Il disco si apre con “Answer Me”, il brano più famoso, il grido di dolore dell’uomo sulla terra, interpretato nella narrazione da un esule, da un cantante soul e da un minatore, tutti in attesa di una risposta (che non arriva) ai perché della guerra e dei sacrifici in nome del potere. “Combattere la battaglia di qualcun altro e finir a giacere in un boschetto ombroso” è la triste realtà dei tanti caduti, mentre le cornamuse, le cosiddette bagpipes, e il fiddle, il violino irlandese, risuonano nell’aria con beffarda allegria. “Scottish Rain” invece inizia con ritmi tambureggianti, a evocare proprio la pioggia, e pennella nostalgia con frasi delicate fino all’amaro finale, con il riferimento a Chernobyl: “Sento il tuo cuore battere forte…Oh, piccola, come bambini ancora una volta. Rimaniamo vicini l'uno all'altro, prigionieri della pioggia scozzese. Pioggia radioattiva.”

“The Real McCoy” trae linfa sempre da un ricordo “piovoso” e celebra i bei tempi andati con più ottimismo, saturata dai fiati dei Phantom Horns e aggraziata da uno scat contagioso, “be do, do be do do, be do do”. Il tocco di Flood si sente particolarmente nell’ermetica title track, esperimento di blues moderno, con echi e riverberi architettati in grande stile, e in “Walk with the Night”,  una ballata molto vicino al sound di The Joshua Tree. Il testo tratta l’argomento della morte con una metafora, descrivendo la speranza come una risorsa, mentre la successiva “Razor Blades of Love” rappresenta la malinconica accettazione della solitudine, al termine di un’importante storia d’amore.

 

«In quel periodo, a partire dal primo album “A Letter from St. Paul” con il singolo “Painted Moon”, stavo scrivendo canzoni blues moderne con parole molto cupe e in bilico tra disincanto e ironia. Raccontavo della tristezza di un Paese che stava andando nella direzione completamente sbagliata. O almeno, nella direzione opposta rispetto alla maggior parte degli altri musicisti di sinistra che conoscevo. Politicamente ero dall'altra parte rispetto a Margaret Thatcher. Gli anni della Thatcher sono stati il motivo per cui è nato il punk rock. Mi sono identificato con quello». 

(Estratto da intervista a Jimme O’ Neill pubblicata su Heraldscotland.com, 2021)

 

“Skin Games” e la meravigliosa rivisitazione del traditional “Wayfaring Stranger” vanno nella direzione delle pungenti parole di O’Neill, che con i Silencers, tra alti e bassi, lutti e cambi di formazione, è arrivato fino ai giorni nostri (l’ultimo lavoro, Silent Highway, è uscito nel 2023) . Il cantante nel primo brano si lascia andare a lancinanti assoli di armonica, affilata come un lama pronta a trafiggere. Skin Games” è una chiara condanna delle discriminazioni, una battaglia contro tutte le ingiustizie e le indifferenze subite per il colore della pelle e si attacca perfettamente alla sentita e originale rilettura di “Wayfaring Stranger”, la quale diventa inno per profughi, rifugiati, poveri disperati, maltrattati alla ricerca speranzosa di un posto migliore dove vivere. Si tratta di tematiche così attuali affrontate con liriche profetiche e lungimiranti, “One people, one kind, a multi-coloured rosary”, in sintonia con la monumentale “Sacred Child”, dedicata ai bambini della guerra, con strofe pure in francese e spagnolo, le altre due lingue “colonizzatrici”.

La serie di motivi mozzafiato termina e parte “My Love Is Like a Wave/Razor Blade Reprise”, canzone leggera e agile come una farfalla. Ora, forse, arriva un po’ di pace, lo si respira anche nel breve bozzetto finale “Sand and Stars”: un’iniezione di tranquillità, una pillola di bellezza da ricevere per merito della natura, che consente di riappacificarsi con questo dannato, incredibile mondo che però ogni singolo giorno, ogni singola notte, ci offre un’altra possibilità.

“Stars are in the sky tonight. Everything is right tonight. Take my hand and we will go down to the sea, where the light is king, worship the moon and watch the waves breaking.”

Stelle, Cielo, Mare, Luce, Luna, Onde. Rapportarsi con l’infinito, dimenticare per un attimo le angherie umane è possibile. Ce lo dicono i Silencers. Basta la Natura. Basta la Musica. Basta un blues, “Un Blues per Buddha”.