Sembra passato un secolo da quando Kate Nash scalava le classifiche britanniche con il suo album d’esordio, Made Of Bricks (2007), e quel singolo, "Foundations", che la fece finire nei taccuini di tutti coloro che amano un pop di classe e alternativo. Di seguito, la carriera della Nash è proceduta spedita su due binari paralleli, quello della musica, con altri tre album di pregevole fattura, e quello cinematografico, che l’ha vista impegnata sul set di film e serie tv.
La musicista londinese è sopravvissuta non solo alla fine del contratto con la sua etichetta discografica storica (Fiction), ma anche alla cancellazione di Glow, l’amatissima serie Netflix, in cui recitava nei panni di una lottatrice, che imparava "a diventare grande e a divertirsi occupando spazio". Le note vicende pandemiche, poi, hanno fatto il resto, tenendola lontano dal circuito musicale per ben sei anni, fino alla pubblicazione di quest’ultimo 9 Sad Symphonies, ispirato e concepito durante i giorni duri della pandemia e del lockdown.
Eppure, nonostante il titolo del disco sembrerebbe suggerire un mood sofferto, proprio a cagione dei temi trattati, questo nuovo lavoro è semmai ispirato a un’ammiccante e romantica iconografia hollywoodiana (come richiamato dalla copertina) e le canzoni in scaletta, che sono dieci e non nove, abbracciano un mood per lo più gioioso, traboccante di speranza e positivismo, in cui strumenti classici e vellutati arrangiamenti d’archi trovano il contrappunto in alcuni elementi elettronici, che danno un tocco disincantato al tutto.
L’iniziale e bellissima "Millions of Heartbeats" introduce l’ascoltatore nel mondo di Kate Nash con una linea di pianoforte accattivante e gioiosa che si innesta in una ambientazione elettroclassica di più ampio respiro. Un brano che sonda l’animo umano durante la solitudine e lo spaesamento dovuti alla pandemia (“Everything hurts, it hyrts so much, i eat my dinner in the toilets at lunch”), ma che invece di abbandonarsi alla più tetra depressione si slancia in un afflato di speranza, la stessa a cui si sono aggrappati milioni di battiti cardiaci durante quel periodo oscuro (“Millions of light-years is millions and millions of heartbeats, And I think it's worth holding on for, well don't you oh? I guess we have to try”).
Nello stesso modo, la baldanza emotiva di "Misery" risucchia in un vortice orecchiabilissimo di archi ed elettronica, mentre la Nash invita alla solidarietà e alla cura degli altri con ingenua trasparenza (“Running like we never run be, Running like we never run before, I will never leave you behind… Even if the bridge was falling”), così come nella languida "Wasteman", quando gli archi si librano nel ritmo di una seducente danza, la songwriter gioisce per la fine di un amore tossico e la ritrovata libertà.
A volte le melodie sembrano scarne, sottili, sfuggenti, eppure tutto suona coinvolgente, basta il tocco di un violino malinconico nel folk divertito di "Abandoned", l’incedere pizzicato della stralunata ed emozionante "Space Odissey 2001", o lo scanzonato mood di una canzoncina dal vago retrogusto country come la conclusiva "Vampyre", un conclusivo invito a vivere liberi da condizionamenti e abbandonarsi al puro piacere della vita (“Sometimes you gotta jump and run, Let the demons from your past explode into the sun”).
Troppo spesso sottovalutata, Kate Nash si rivela per l’ennesima volta una sognwriter ispirata, capace di dare vita a un pop fantasioso e sofisticato, eppure leggiadro, divertente, portatore sano di piacevolezza e sorrisi. Nessuna alchimia particolare per giungere al cuore dell’ascoltatore: melodie solari, semplici e dirette, e testi che fanno riflettere con un tocco di disincantata ironia. Cos’altro serve a un buon disco?