80, dato alle stampe nel 2005 e vincitore di un Grammy Award, è un album ricco di special guest e star, concepito per festeggiare gli ottant’anni del Re del blues, B.B. King. Nonostante i numerosi personaggi del mondo musicale intervenuti per questa particolare celebrazione, il padrone di casa riesce a mantenere il giusto equilibrio tra melodismo e swing, calore bluesy e impennate rock, lente ballad d’atmosfera e un forte impeto r&b, unendo nuovo e antico, giovani rampanti e vecchi marpioni. Così due highlight della raccolta sono nelle fresche mani di John Mayer, con l’intensa “Hummingbird”, una delle più belle composizioni del grande Leon Russell, e del navigato Billy Gibbons, per una travolgente e rabbiosa “Tired of Your Jive”.
Durante tutta l’opera B.B. si diverte a mescolare le carte, fonde come solo lui sa fare ambientazioni rurali e metropolitane e tira fuori dal cilindro un’emozionante “The Thrill Is Gone” duettando con Eric Clapton; fa sognare grazie a una rilettura infiammata di “Early in the Morning”, con l’armonica luciferina di Van Morrison, e convoca il compare di mille battaglie Bobby Bland per un toccante dialogo antifonale country gospel nel classico dei classici di Willie Nelson “Funny How Time Slips Away”.
«Ogniqualvolta vi sia un ospite chitarrista, la sei corde di King è udibile nel canale destro».
Dalle liner notes del CD 80.
Tra i brani migliori spiccano proprio l’incrocio con un eccelso chitarrista, Mark Knopfler, nel lento “All Over Again”, intenso, vissuto e con il magnifico pianoforte di Chris Stainton, mentre il suo “shout” colorito e il vigore rhythm and blues con il supporto dei fiati emergono in “Drivin’ Wheel”, per merito della collaborazione di Glenn Frey. “There Must Be a Better World Somewhere” è invece una ballata soft di Doc Pomus e Dr. John, figlia del gusto melodico anni Ottanta di B.B. e qui rivissuta con un piglio eccessivamente sofisticato insieme a Gloria Estefan. Raffinatezza per raffinatezza va molto meglio lo standard a dodici battute “Need Your Love So Bad” sostenuto da Sheryl Crow, oppure l’accoppiata con Daryl Hall per “Ain’t Nobody Home”, ma in fondo sono quisquilie per trovare una differenza tra le varie interpretazioni, tra i diversi arrangiamenti scelti per ogni canzone in base all’artista coinvolto.
Il lavoro è solido, ben amalgamato dalla voce potente e sexy di King, giocata tra erotismo e toni churchy, e la sua adorata Gibson “Lucille” è fiera, stilizzata e concreta, sempre pronta a pennellare assoli di inebriante poesia, come nell’accattivante “Never Make a Move Too Soon”, in compagnia di un assatanato Roger Daltrey.
«Rockstar come Eric Clapton, i Rolling Stones, Van Morrison, gli U2 ed Elton John mi hanno fatto un grande favore. Non sono io ad aver fatto un piacere a loro, perché molte persone li ascoltano e invece non hanno mai sentito parlare di me».
Estratto da intervista a wordpress.com
L’album si chiude proprio con Elton John, è il momento della scatenata “Rock This House” sabba rockeggiante ove B.B. duella con il piano dell’autore di “Your Song” fino all’ultima nota, in ricchezza e fluidità di fraseggio.
Sono passati ormai quasi dieci anni dalla scomparsa di Riley B. King, il contadino di Itta Bena, e vent’anni da 80, una delle sue ultime vette, ma, ascoltando la sua musica, è come se il tempo si fermasse e tutto raggiungesse un’altra dimensione. È stato un importante esponente della storia del blues e, probabilmente, il chitarrista più influente della storia della musica. Senza Live at the Regal (1964) chissà se Jimi Hendrix, Eric Clapton, Jimmy Page e Jeff Beck si sarebbero approcciati nell’incandescente e rivoluzionario scenario dei sixties alla stessa maniera. Immortale.