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REVIEWSLE RECENSIONI
24/06/2024
Paul Weller
66
Il Modfather torna con un album elegante e malinconico, che riflette sul tempo che passa e sul senso dell'esistenza, attraverso dodici canzoni emozionate ed emozionanti.

Non è necessario essere fan di Paul Weller, come il sottoscritto, per rendersi conto che il songwriter di Woking sta invecchiando benissimo, che la sua vena creativa sembra inesauribile, tanto che è davvero difficile individuare momenti di stanca in una carriera di livello altissimo. Sono 66 primavere, come recita il titolo di questo nuovo, bellissimo disco, ma proprio non si sentono, se non fosse per quella voce che, anno dopo anno, acquisito un’ulteriore, duttile e consapevole profondità. Così, grazie a un invidiabile stato di forma, Paul Weller è entrato, da una decina d’anni a questa parte, in una nuova fase creativa totalmente libera.

Senza rinnegare il suo scintillante background, l'ex frontman dei Jam e degli Style Council, negli ultimi album pubblicati, ha ampliato significativamente i suoi orizzonti, e ha realizzato alcuni dei brani più avventurosi e caleidoscopici della sua lunga carriera, abbracciando sontuose orchestrazioni, paesaggi sonori sperimentali, e inusitate trame elettroniche.

Racchiuso nella splendida copertina pop art, confezionata dal leggendario Peter Blake (lo stesso che, nel 1995, aveva messo mano alla cover di Stanley Road), 66 vede la partecipazione di alcuni ospiti del calibro di Noel Gallagher, Bobby Gillespie, Suggs e Richard Hawley (per citarne alcuni), e di giovani talenti quali il produttore art-pop francese Christophe Vaillant, la compositrice elettronica e arrangiatrice d'archi Hannah Peel e il trio vocale di Brooklyn Say She She. Uno straordinario parterre, con il contributo del quale il Modfather crea dodici canzoni in cui il pop di matrice sessantiana si fonde mirabilmente con il consueto retroterra soul e r’n’b, dando vita a un percorso musicale seducente e ricco di fascinazione.

C’è un evidente fil rouge che attraversa tutta la scaletta di 66, rappresentato da una scrittura semplice, costituita da pochi elementi e da idee melodiche d’impatto immediato; eppure, il nucleo di queste canzoni si gonfia a dismisura, diventa cangiante e rigoglioso, grazie a uno straordinario lavoro in fase di arrangiamento, che accresce di sfumature il pop da camera, malinconico e granuloso, che rappresenta il piatto forte di un disco prevalentemente meditabondo.

"Ship Of Fools" è pure delizia acustica, un’introduzione morbida e dolcissima, che si arricchisce, piano piano, del flauto di Jacko Peake, di un pianoforte bluesy e di qualche nota di xilofono. Sulle corde di un retrogusto nostalgico, ma diametralmente opposta all’opener, si sviluppa la successiva "Flying Fish", un brano funky dance trainato da pulsanti basso e batteria, mentre "Jumblee Queen" è un r’n’b clamorosamente welleriano, in cui i fiati della Stone Foundation svolgono un lavoro eccezionale, mentre la chitarra del Modfather sfrigola in sottofondo.

"Nothing" è uno degli high light del disco, un brano smooth jazz morbido come il velluto, ritornello impeccabile e arrangiamento di fiati avvolgente. La malinconia stritola il cuore in "My Best Friend’s Coat", il cui arioso ritornello trova un punto di contatto fra la canzone francese e Leonard Cohen, mentre "Rise Up Singing" fonde pop e soul in un cullante movimento d’archi. Nella sua semplicità francescana, "I Woke Up" è una canzone killer, di quelle che lasciano senza parole per la bellezza cristallina della melodia e degli arrangiamenti, mentre "A Glimpse Of You" sembra nascere da un fantasioso abbraccio melodico fra Style Council e Burt Bacharach.

Impossibile non citare ogni brano in scaletta, ognuno dei quali si lascia ricordare per qualche attimo di perfetta bellezza: è il caso del flauto che accarezza la melodia soffice di "Sleepy Hollow", è il retrogusto sixties di "In Full Flight", ballata soul baciata dalle melodie vocali delle Say She She, la chitarra rock che graffia le atmosfere black di "Soul Wandering", e il fluttuare psichedelico della conclusiva "Burn Out", in cui incedere cinematografico è il mood perfetto su cui 66 evapora, lasciandoci nelle orecchie quarantadue minuti di splendide melodie.

Un disco, questo, che si pone come una sorta di pietra miliare nella discografia di Weller, davanti alla quale l’artista si ferma, guarda al passato, riflettendo sul tempo che passa e sul senso dell’esistenza, senza però dimenticarsi che di fronte c’è ancora tanta strada da percorrere. Perché, a sessantasei anni, Weller è ancora un musicista ambizioso e consapevole, capace di fondere eclettismo ed equilibrio, e di scrivere canzoni eleganti, nostalgiche, traboccanti di vita. Canzoni che lasciano il segno.