L'incontro casuale, sul treno per Parigi delle 6.41, tra un uomo e una donna che molti anni prima si sono amati e odiati. L'imbarazzo e gli sguardi distolti. Poi il silenzio freddo del viaggio. Ci sarà spazio, prima dell'arrivo, per un cenno di riconoscimento, di scuse o magari per un caffè? Dopo un week-end trascorso per dovere a casa dei genitori, Cecile sta rientrando a casa. È mattina prestissimo, e lei prova un senso di leggerezza. Ma quando il treno sta per partire qualcuno le si siede accanto. Qualcuno con un'aria familiare. È invecchiato, eppure non ci sono dubbi che sia Philippe, con cui Cecile aveva avuto una storia ai tempi dell'università. Una storia durata poco e finita malissimo alla quale, però, entrambi non hanno mai smesso di pensare.
I grandi amori non ci lasciano mai, anche se sono durati una manciata di giorni, anche se hanno tirato fuori il peggio di noi, anche se sono stati terribilmente infelici. Anzi: forse è proprio l’infelicità a rendere grande un amore, a farci palpitare ancora a distanza di tempo, ad aver trasformato l’immagine di lei o di lui in un deja vù ricorrente della nostra memoria. Banale? Può darsi. Tuttavia, se in ambito letterario, fate mente locale sugli amori di cui avete letto, scommetto che a tutti verranno in mente Romeo e Giulietta ben prima di Renzo e Lucia. Perché? Perché quell’amore non solo è travolgente, ma diviene leggendario in quanto tragico, tormentato, e soprattutto senza lieto fine. Insomma, se la porta della felicità conduce all’oblio, quella del dolore indica il percorso dell’immortalità. Senza scomodare la straordinaria tragedia di Shakespeare, è proprio un amore così, pessimo ma indimenticabile, il tema del breve romanzo di Jean Philippe Blondell, che narra la storia di Cecile e Philippe, “sconosciuti” in treno, trent’anni dopo aver vissuto una breve e burrascosa liaison. Blondel non si limita però a rimettere insieme i frammenti di quella triste relazione lontana nel tempo, a sondare le opposte ragioni dei due ex-amanti, a indulgere nel ricordo nostalgico di ciò che è stato o non è stato detto, di ciò che è stato o non è stato fatto. 6.41 racconta, semmai, attraverso il punto di vista di ciascuno dei personaggi, il bilancio di due esistenze, la storia di un uomo e di una donna, a cui il tempo ha destinato percorsi antitetici, ribaltando negli anni i ruoli che avevano in gioventù. Cecile, un tempo ragazza fragile, anonima e priva di ambizioni, è diventata una facoltosa e desiderabile donna di successo; il bel Philippe, aitante e seducente ventenne col mondo in mano, si è trasformato, invece, in un grumo di fallimenti affettivi, sentimentali e professionali, in un patetico uomo di mezz’età prostrato dalla pinguedine e dalla depressione. Fra i due non esiste più nulla, se non il passato, il rammarico e i sensi di colpa. Saprà il fortuito incontro modificare il corso già segnato delle loro, apparentemente immutabili, esistenze? Forse si, ma in realtà questo importa poco a Blondel. Ciò che, infatti, davvero rileva per lo scrittore è semmai la possibilità di mettere a fuoco uno sguardo impietoso, cinico e per niente compassionevole sulla mezza età, su quei giorni, cioè, attraversati da una strana rabbia che siamo soliti chiamare rimpianto. Una rabbia che ci impone di voltarci indietro, di rimestare nelle ceneri di un fuoco ormai spento, e che ci costringe a vivere il presente senza più speranze in un futuro migliore. Come il protagonista del film Una Storia Vera di David Lynch, a cui viene chiesto quale sia la cosa peggiore della vecchiaia e lui risponde: è il ricordo di quando si era giovani. Proprio quello che succede a Cecile e Philippe. Solo all’ultima pagina, il lettore più ottimista, troverà, forse, un piccolo spiraglio di luce. Perché, in fin dei conti, i grandi amori, quelli tristi, non si scordano mai.