C’è una nuova Wave di cantautorato femminile che si muove in Italia da un po’ di anni e che oggi, finalmente, sembra anche prendersi le attenzioni dei media. Ginevra, Marta del Grandi, Emma Nolde, Daniela Pes, Bluem, Sara Parigi, Marta Tenaglia, e adesso anche Cranìa, hanno proposte molto diverse tra loro ma c’è anche qualcosa che le accomuna: la profondità espressiva, in primo luogo; e poi la voglia di sperimentare, sempre e comunque, in un itinerario di ricerca che le ha portate a fondere la forma canzone con l’elettronica minimale, senza una ricetta prefissata ma con una grandissima abilità di comunicare in modo aperto e sincero il proprio vissuto.
Francesca Cominassi, in arte Cranìa, è in giro dal 2020 (non un grande anno per iniziare un cammino artistico, direi) quando ha pubblicato il primo singolo “Stomachion”. Nel 2021 sono arrivati altri due brani, “A fondo” e “+ (più)”, preludio all’EP Giustapposizione, nel maggio successivo, che ha anche inaugurato il deal con Costello’s Records.
E quindi innanzitutto bisogna fare i complimenti all’etichetta milanese, che dopo Studio Murena e Marta Tenaglia si è assicurata un altro nome che, mi sento di poterlo scommettere, sarà destinato a fare il botto.
584 è il numero di giorni che il pianeta Venere impiega per entrare in congiunzione col sole; si tratta del corpo celeste più luminoso dopo il sole e la luna, eppure sulla terra è visibile solo per poche ore: questo, in sintesi, il pensiero che ha guidato Francesca nella scelta del titolo e nella composizione di un disco che si muove costantemente tra cielo e terra, istantanee di quotidianità immerse nella dimensione ultima del cosmo, ammissione di fragilità e allo stesso tempo grandezza dei propri desideri.
Senza troppo girarci attorno, questo è un disco meraviglioso. Lo è innanzitutto perché le canzoni sono scritte benissimo (merito anche di Mirko Bruno, che le ha firmate assieme a Cranìa) e funzionerebbero anche da sole, se fossero eseguite in acustico (ne ho avuto un piccolissimo assaggio durante uno showcase lo scorso anno e posso assicurare che è così). Ad arricchirle c’è però un lavoro di produzione straordinario, ad opera di Federico Carillo, ma sapientemente coadiuvato nella programmazione elettronica da Sidi e Vito Gatto (sì, proprio il violinista degli Io?Drama, che ritrovo con enorme piacere dopo parecchi anni). È proprio l’incrocio tra queste due anime a fare la differenza: i singoli brani sono uno più bello dell’altro, ma il vestito che viene loro incollato addosso rende questa bellezza ancora più concreta e delineata.
Colui che è già stato il produttore di Marta Tenaglia compie a questo giro un altro mezzo miracolo, lavorando soprattutto sui dettagli e valorizzando ciascun brano, ogni volta senza inventarsi nulla ma sempre rendendo più visibile quello che era già presente in potenza.
Le atmosfere sono notturne, la poetica è scarna, minimale, c’è un costante uso del down tempo, al servizio di una vocalità magnetica, tecnicamente inattaccabile ma anche estremamente espressiva, una totale disinvoltura nel muoversi tra Pop elettronico e canzone d’autore (in “Arturo” le due componenti sono fuse alla perfezione e lo spettro di Mia Martini è molto più che una semplice immaginazione).
L’elettronica è a tratti rarefatta e a tratti incalzante, con Beat e cassa dritta a sottolineare i momenti salienti, un’alternanza magistrale tra pieni e vuoti a sottolineare ancora di più l’intensità e l’importanza della posta in gioco (“Mani” e “Quattro mura” sono in questo senso costruite in maniera pazzesca).
Qua e là c’è anche un sottile gioco di orchestrazione, pianoforti e archi stranianti come quelli de “La parte sbagliata dei binari” o struggenti in “Cemento”, mentre altrove (“Il giorno dopo ieri”) l’elettronica è prevalente e si punta soprattutto a riempire gli spazi e ad alzare il tiro.
E che Francesca abbia una marcia in più lo si capisce da “Nuovo Memo 584”, una registrazione grezza, dal sapore casalingo, probabilmente una demo che è stata semplicemente incorporata nel disco perché suonava già bene così: c’è solo la voce, accompagnata da quello che mi è sembrato un piano elettrico, con tutto lo struggimento possibile in quel “desidera” che sembra richiamare proprio la famosa e discussa etimologia di “desiderio”, che significherebbe una “mancanza delle stelle” (de-sidera, appunto).
Sono 24 minuti di acutissima perfezione, la prova di un’artista semplicemente fuori dal comune, la cui grandezza spero venga riconosciuta al più presto senza troppe esitazioni.