L’ho già scritto altre volte, non mi ricordo dove e quando ma è un ritornello che ripeto spesso. Addirittura, se volessimo analizzare la questione più in profondità, potremmo pure notare che il ciclo di fioritura artistica di un collettivo, quello dove sforna i suoi dischi migliori, quelli per cui da lì in avanti verrà ricordata, non dura mai più di sette-otto anni. Dieci, per i più fortunati; di più, molto difficile, se non impossibile. Ora, la carriera di una band non è matematica e non conosco tutte le band del pianeta quindi non lo so, magari ci sono delle eccezioni che mi sfuggono. Ad ogni modo il giochino è semplice: nominate un gruppo, passate in rassegna la sua discografia e vedrete che le canzoni e i dischi che gli hanno dato la fama, che ne hanno configurato l’identità, sono stati tutti prodotti in quell’unico lasso di tempo. Tutto il resto, bello o non bello che sia, è superfluo, è roba che i fan potranno anche amare ma che difficilmente potrà incontrare l’interesse dell’appassionato onnivoro.
Prendiamo i Cure, per esempio: volendo includere anche l’esordio “Three Imaginary Boys” nella rassegna, quand’è che hanno smesso di produrre dischi definiti pressoché unanimemente come capolavori? Quand’è che hanno smesso di essere una band influente, di sperimentare suoni e di percorrere strade nuove? Credo che la maggioranza di coloro che venissero interpellati in proposito, risponderebbe nel 1992, dopo l’uscita di “Wish”. E quindi sarebbero 13 anni. Questo a voler essere larghi, però. Se invece decidessimo di battezzare il primo album come complessivamente un po’ acerbo, nonostante alcuni brani leggendari e tralasciare “Wish” come un lavoro che già all’epoca non aveva messo d’accordo proprio tutti (i fan più oltranzisti ancora non accettano che il pubblico generalista ricordi Smith e compagni solo per una canzone Pop come “Friday I’m in Love”), allora il campo risulterebbe ristretto: 1980-1989. Da “Seventeen Seconds” a “Disintegration” non ne hanno sbagliato uno, penso che nessuno possa negarlo. Ecco così che siamo perfettamente dentro i tempi.
Ma se anche i Cure rappresentassero davvero la proverbiale eccezione, quello che sto per dire non cambierebbe: da tempo la band britannica ha smesso di essere una realtà musicale dotata di ciclo vitale attivo e si è trasformata nella più classica delle “vecchie glorie”, vale a dire quei gruppi che vai a vedere per quello che hanno rappresentato, non per quello che rappresentano.
Quindi il punto non è, nel 2019, cercare di capire quando faranno uscire questo benedetto nuovo disco (ora che i Tool ce l’hanno fatta, la palma dell’album più atteso, annunciato e rimandato è ormai saldamente nelle loro mani) perché, a meno di accadimenti molto vicini al miracolo, questo non potrà aggiungere assolutamente nulla a quanto di fondamentale hanno già scritto nella loro età dell’oro.
Ecco allora che possiamo arrivare al dunque: il box set che abbiamo tra le mani e di cui avrei anche intenzione di parlare se non mi dilungassi troppo nei convenevoli, rappresenta la degna chiusura del cerchio per un gruppo straordinario, importante e influente, che arrivato a questo punto non avrebbe più nessuna ragione di esistere.
Lo scorso anno i Cure hanno festeggiato il loro quarantesimo anniversario e lo hanno fatto con due concerti speciali, entrambi a Londra, che oggi hanno deciso di pubblicare per intero, sia in cd che in dvd/Blu Ray, in una confezione un po’ ingombrante ma molto elegante, che comprende anche un booklet di 40 pagine con scatti suggestivi tratti da entrambi gli show.
Fughiamo ogni dubbio e diciamo che il livello del contenuto è eccezionale, tale da spazzar via tutte quelle lamentele per la resa non eccelsa delle ultime pubblicazioni live ufficiali (il famoso “Bestival”, ad esempio, che pure rappresenta una bella disamina della loro carriera, è sempre stato parecchio bistrattato).
Qui tocchiamo invece vette altissime, vicine alla perfezione, sia per quanto riguarda l’audio che per la qualità video. Le esibizioni sono due e la scelta di includerle integralmente è stata vincente, in quanto le facce della band che vi sono rappresentate sono radicalmente diverse. Partiamo dal Meltdown: lo scorso anno a Robert Smith è stato chiesto di curare la programmazione di quell’edizione e lui, oltre a portare una pletora di gruppi fantastici, dimostrando per l’ennesima volta di essere personaggio attentissimo a tutto ciò che sta accadendo nella scena musicale, vi si è esibito con i Cure l’ultima sera, in uno speciale show battezzato “Curaetion”. Io la butterei giù così: sono stato ad Hyde Park un paio di settimane dopo, per quello che dei due concerti è stato senza dubbio il più reclamizzato, ma avrei voluto essere a Southbank.
Motivo principale? La setlist. Le due ore e mezza di esibizione sono state divise in due parti, “From There to Here” e “From Here to There”. Una canzone per disco, dal primo all’ultimo, dall’ultimo al primo, con l’aggiunta di quei due brani inediti (“It Can Never Be the Same” e “Step Into the Light”) da anni suonati dal vivo e finalmente pubblicati in versione ufficiale (non che siano chissà cosa ma fa comunque piacere averli).
In mezzo, una selezione che lascia fuori quasi del tutto i grandi classici o i pezzi più conosciuti (vado a memoria ma mi pare che delle cose più amate dalla massa ci sia solo “Pictures of You”), facendo scelte meno scontate (“Three Imaginary Boys”, “At Night”, “Bananafishbones”, “Other Voices” e “Sinking” sono senza dubbio le più gradite) e presentando in generale un andamento più cupo, più lento e più vicino a quella che molti ritengono essere la più autentica essenza di questa band.
Il tutto girato in maniera accattivante, presentando ogni canzone in maniera diversa (bellissimo l’uso dei filtri, che negli episodi più vecchi ricreano l’atmosfera di un filmato d’epoca) e in generale facilitando l’immersione dello spettatore nel centro dell’azione.
Ad Hyde Park è andata in maniera diversa: un mare sterminato di folla (gli organizzatori parlavano di 60mila persone), la luce del giorno ad illuminare buona parte del concerto, un Robert Smith gioviale e ciarliero, una scaletta puramente celebrativa, composta al 90% da singoli e classici immortali (credo che tutti i loro pezzi famosi siano stati eseguiti), colonna sonora ideale di una festa per famiglie (io c’ero e vi posso assicurare che l’utenza era davvero variegata). Hanno fatto eccezione gli ultimi venti minuti, subito dopo “Boys Don’t Cry”, dedicati ad una rabbiosa e frenetica selezione di brani del primo disco, con “Jumping Someone Else’s Train”, “Grinding Halt”, “10:15 Saturday Night”, chiudendo il tutto con una strepitosa “Killing an Arab”. Inutile dire che varrebbe la pena comprare il cofanetto già solo per questo momento; altrettanto inutile però, sottolineare che, scontata o meno, questa esibizione rimarrà nella storia e che occorrerebbe farla vedere a più riprese nelle scuole.
Già, perché non lo si dice mai ma, a quarant’anni di distanza, i Cure hanno ancora una volta una line up stellare (il ritorno del figliol prodigo Simon Gallup ha pesato moto in tal senso, così come la chitarra meravigliosa di Reeves Gabrels o le tastiere di Roger O’ Donnell, per non parlare della spinta che Jason Cooper ci mette alla batteria) e suonano potenti come non mai, senza nessuna concessione al tempo che passa. Vedasi in particolare la voce di Robert che, superata brillantemente la laringite che ne aveva inficiato il passaggio italiano del 2016, sembra aver raggiunto livelli di estensione e precisione mai toccati neppure negli anni d’oro (ok, forse questo è un giudizio un po’ esagerato però canta veramente bene, fidatevi).
Non si indulge mai in facili celebrazioni e sentimentalismi (totalmente inesistenti i primi piani sui fan, che soprattutto ad Hyde Park avrebbero reso il tutto parecchio stucchevole) ma si raccontano le due serate in maniera asciutta, essenziale, dando spazio solo e soltanto alla musica.
E che sia grande musica, è fuori discussione: in queste quasi cinque ore c’è tutto ciò che serve per capire il motivo per cui i Cure sono stati una delle band più importanti di tutti i tempi.
“Sono stati”, appunto. Potranno andare avanti all’infinito (e noi per il loro bene glielo auguriamo, ovviamente) ma la parola “fine” sta scritta qui dentro, a lettere indelebili. Compratelo, consumatelo e poi tuffatevi a capofitto nel presente.