Attivi da una decina di anni, ricchi di featuring principalmente vocali, stupiscono e coinvolgono ad un primo ascolto ed assestano il colpo su qualcosa di più realistico e terrestre nei successivi.
L’album uscito a fine 2019 colpisce per come lasci suonare qualcosa di apparentemente classico in una maniera “aggiornata” usando delle lavorazioni sonore che definirei laterali e non interne all’asse portante della musica. Come se si volesse cambiarne l’effetto ma non il sapore.
Ad esempio Preaching the coir è la canzone che apre, uno strumentale esattamente in stile Meters con qualche aggiunta sintetica che dia profondità alle linee. Le belle sorprese arrivano nell’improvviso utilizzo del reverbero sul tema di fiati, una soluzione costruttiva che ti fa drizzare le orecchie anche solo per la posizione di attesa e di eventualità in cui ti mette per ciò che sta per venire.
Delle voci femminili giocano a vocalizzare e ci mantengono negli anni Settanta registrati ottimamente ed ispirati.
Stronger segue esattamente in questa traccia con un suono di timpano quasi orchestrale che doppia la cassa in una classica funk ballad al femminile (con J SWISS). Sono incuriosito da questa sorta di pozione e aldilà del tiro, del gusto per il sound, per le soluzioni musicali che mi fanno immaginare un live coi controfiocchi e divertente, mi chiedo dove arriverà questo disco.
La successiva strumentale Superstrada (!) mette subito la band nella parte alta della lista (qualora ci fosse) dei portatori sani di funk grazie alla dose di gusto, di attesa (nel senso di mancanza d’ansia nel dover stupire, un’autentica dote che rilassa all’ascolto), nonostante ci sia il sitar in una maniera appena appena didascalica per non dire ingombrante. Ma è un parere che spunta al primo ascolto e svanisce nei successivi.
Il solito suono insolito che spicca e stavolta tocca al sax baritono lasciato da solo e saturo fino al midollo; bellissimo.
Concrete stardust prosegue il percorso nel funk, stavolta con una scrittura che sta tra la Stax records, i Funkadelic e la tipica eroicità del mondo western, vuoi per i cori vuoi per il tema dei fiati.
Respiro pur nella bellezza, un filo di ripetitività e forse una dimensione legata in maniera troppo netta all’esibizione live, alla scrittura con la soluzione abituata a chiamare l’applauso e questo è comunque un bene anche se in questi suoni mi aspetto una produzione che vada di pari passo anche con le idee, gli accordi oltre che col sound.
Rieccolo il suono particolare, stavolta mi pare sia una cassa che suona ancora come un timpano, una cosa che mi ricorda un brano di John Barry.
Parte una ballad che ti schiaffeggia in un angolo insieme ai tuoi dubbi, merito del reverbero sulle due chitarre, del sound di batteria che pare incatenato ma che ti fa vedere cosa c’è intorno in quella stanza e soprattutto dell’interpretazione di Lee Fields, e tutto torna. Siamo nel mondo che sta tra Al Green, Solomon Burke. No, Otis Redding no. Ma siamo ad un livello altissimo. Penso che questa Where do we go from here sia meravigliosa e forse esagero, ma l’ascolto e il momento sicuramente sono degli attimi che ricorderò alla fine.
La semplicità caraibica di Macumba ci ricorda che siamo in un mondo sorridente e leggero e che forse dobbiamo abbassare il tiro, chiudere gli occhi, fare altro e goderseli in ascolto.
È chiaro, non si sta parlando di un mondo complesso; torna tutto e bene, ma la radice è qualcosa di semplice.
Mi ricordano un po’ i Booker T. & the Mg’s, quando sperimentavano con i caraibi in Soul limbo, con l’aggiunta dei fiati e di un solido mondo percussivo. Ed in effetti gli Mg’s, uno dei miei gruppi prediletti, erano leggeri. Certo, di questo intreccio di generi ne erano gli inventori, successivamente insieme ai The beginning of the end.
Gizelle Smith è il featuring vocale della successiva Take on the world e si tratta, per chi conosce il gruppo, di un ritorno, visto che aveva già fatto parte del debut album dei Mighty Mocambos.
È un bit intrigante, adatto a lasciar spazio ad un timbro collaudato ma anche a non lasciar particolare traccia di sé, se non per il bel colore timbrico vocale e per l’immancabile groove. Non una scrittura memorabile.
Una variabile interessante succede nel brano successivo, Return to space, dove si inserisce il compositore tedesco Peter Thomas, novantaquattrenne con più di cinquanta anni di storia intorno alle colonne sonore, un autentico ispiratore per il mondo in questione.
Ed in effetti l’ingrediente in più, fosse soltanto per l’inserimento del flauto, di una meravigliosa chitarra fuzz che mi fa pensare ad un disco di Isaac Hayes, o di un sottile lavoro armonico e di scrittura, porta la composizione a più mani di questo brano sicuramente ad un livello più alto.
Golden shadow torna ad essere strumentale e nelle mani di Bjoern Wagner e Bernard Huemmer, i compositori principali del disco.
Forse la composizione più “tipica” di tutto l’album in ogni senso, con un gran tiro e priva di sorprese.
La seconda ballad dell’album spetta alla voce femminile di Nichola Richards, cantante e percussionista in pianta stabile che già aveva duettato con J Swiss nell’iniziale Stronger e non è un momento indimenticabile, semplicemente trascorre con mestiere e forse non con tutto il cuore e la dote necessaria.
Here we go ci catapulta in un mondo ancora strumentale e tirato ma stavolta con protagonista un coro di voci di bambini, accreditati appunto come Mocambo Kidz. La cosa fa sorridere, mi ricorda qualcosa dei primissimi Red Hot Chili Peppers e non posso che apprezzare.
Ice T.
Poi arriva lui, prende l’ultima canzone Bounce that ass per mano e insieme a Charlie Funk rende improvvisamente un giro basato sulla solita ripetuta linea un punto di forza che ti intriga ed accompagna fino alla fine del disco.
Alla resa dei conti 2066 è un disco fatto con gusto e con mestiere che porta sicuramente The Mighty Mocambos tra i portabandiera del funk europeo.
Rimane ad un ascolto attento una leggera sensazione di monotonia data dalla scrittura forse non così accattivante ed originale, cosa che lascia troppo il pallino in mano al sound ed al groove, colpevolmente meno all’armonia.