Da tempo sto riflettendo sui cicli vitali delle varie band o artisti solisti che siano e credo che continuare ad oltranza non sia un bene per nessuno: l'ispirazione di solito ha una data di scadenza e va a finire sempre che delle discografie numerose si ricordano due o tre titoli, non di più. L'eccezione è prerogativa dei più grandi e i più grandi, si sa, non sono molti.
E così, in attesa di scoprire come la creatività dell'autore ferrarese si esprimerà nel prossimo futuro, questa doppia antologia può essere un’occasione interessante per tirare le somme e, perché no, scoprire per la prima volta quello che è stato probabilmente uno dei fenomeni più controversi del panorama indipendente nostrano.
Dite quel che volete ma io negli anni della sua esplosione non ricordo una sola persona, tra gli amici che condividevano con me la passione per la musica, che avesse speso una qualche parola di apprezzamento nei suoi confronti.
Ho in mente parecchi commenti sarcastici, invece, accompagnati da sguardi increduli nel momento in cui confessavo che invece a me quella roba piaceva.
Negli anni le cose sono migliorate: l'aver parzialmente tentato nuove strade e il fisiologico passare del tempo lo hanno reso in qualche modo più accettabile ma è vero che la nomea di grande bidone sopravvalutato non è mai riuscita a togliersela del tutto di dosso.
Come al solito, occorre equilibrare un po’ i giudizi e dichiarare il solito luogo comune che la verità sta nel mezzo.
Le luci della centrale elettrica sono arrivate in un momento in cui il mercato indipendente italiano non era dominato da figure di spicco. Terminata da tempo l'avventura ai vertici dei colossi degli anni ‘90 (Marlene Kuntz, Afterhours, Bluvertigo, Casino Royale, prima ancora C.S.I.), non c’era forse nessuno che dettasse legge in maniera incontrastata ma nomi come Il Teatro degli orrori, Zen Circus, Baustelle, Ministri, Verdena erano già piuttosto grossi, mentre fuori dal circuito del business si muovevano realtà bellissime come Perturbazione, Virginiana Miller, Non voglio che Clara, solo per dirne alcuni. Un panorama variegato, dove l’aggettivo “Indie”, forse poteva ancora avere un senso (o più probabilmente, cominciava a perderlo proprio allora).
Ad ogni modo, Vasco Brondi arrivò dentro tutto questo come un fulmine a ciel sereno e per certi versi la storia della sua ascesa ricorda alcuni dei protagonisti della storia del rock: la giovinezza nella noiosa provincia (Ferrara, nel suo caso), il lavoro da cameriere per sbarcare il lunario, concerti quasi quotidiani in ogni bettola possibile, Myspace, poi l'incontro fortuito con Giorgio Canali, i demo registrati su cd, la folgorazione dell'ex C.S.I. , la sua decisione di produrgli il primo disco, il tour e tutto quello che ne è seguito.
Difficile, forse impossibile, dire che cosa ci fosse di così straordinario in quelle canzoni, da colpire così tanto l'immaginario collettivo. Di sicuro c'era il lavoro di Canali, quelle rasoiate di feedback che andavano a lacerare la stasi acustica delle ritmiche. Un cantato monotono, quasi monocorde, a tratti urlato a squarciagola, brani costruiti attorno ad una manciata di accordi, una poetica del degrado sicuramente autocompiaciuta, sicuramente esagerata e per certi versi retorica; eppure, in qualche modo misterioso, penetrava nel profondo. Sarà che dieci anni fa la narrativa della resistenza, dello stringersi insieme per combattere una realtà violenta e prevaricatrice aveva ancora forza sufficiente a mobilitare le nuove generazioni; sarà che la “politica”, intesa come categoria esistenziale, poteva ancora significare qualcosa; sarà che fare la faccia triste, mettere in mostra un disagio, ancora poteva avere un fascino segreto; sta di fatto che “Canzoni da spiaggia deturpata” (un titolo del genere, se uscisse oggi, verrebbe perculato sei mesi di fila) fece il botto e si prese una bella fetta di mercato. Io stesso, che ci arrivai un po’ più tardi, non riuscii a rimanere indifferente. Certo, agli aironi nei campi nomadi, alle stanze decorate con la stagnola e alle preghiere per proteggere le sopracciglia dai manganelli non ci credevo neanche un po’; però quelle canzoni mi piacevano e ne vedevo tutta la forza di attrattiva, non riuscivo a ridicolizzarle come invece nello stesso periodo facevano molti altri attorno a me.
“Per ora noi la chiameremo felicità”, uscito nel 2010, consolidò quella formula con una produzione migliore, una maggiore cura nei dettagli e canzoni nel complesso scritte meglio (alcune, non tutte). Fu la fine della prima fase e si capì che un terzo disco così ne avrebbe messo a rischio la sopravvivenza.
Fu così che, quattro anni dopo (ma il tour era stato lunghetto) arrivò “Costellazioni”: la svolta cantautorale, gli arrangiamenti orchestrali, la vena più seria e vagamente impegnata. I fan della prima ora un po’ storsero il naso, i detrattori dissero che se faceva schifo prima, ora che voleva sembrare un artista di livello, lo faceva ancora di più. Qualcuno però cambiò idea sul suo conto: “È bravo, questo qui” si dissero. Il nome cresceva, se ne accorgevano anche le televisioni nazionali (ricordo quel famoso passaggio su “Le invasioni barbariche”, con la polemica che ne seguì perché lo liquidarono in due minuti o poco più, tagliandone pure il brano).
C’erano canzoni bellissime, su quel disco: “Le ragazze stanno bene”, per dirne solo una, è quasi commovente e ha un testo con stralci da scrittore autentico (non che ne avessi mai dubitato, eh! Ma qui per la prima volta sceglieva di parlare di altre cose e lo faceva veramente bene). Musicalmente non aveva però chissà quali soluzioni. Era bello ma si perdeva un po’ via, aleggiava la sensazione che le risorse compositive a sua disposizione non fossero poi moltissime.
Molto meglio “Terra” (2017), una vena etnica più marcata ma non invadente, uno sguardo più allargato al mondo, complice anche un viaggio nell'ex Jugoslavia intrapreso qualche tempo prima, un lotto di canzoni tra le migliori che avesse mai composto, dallo sguardo stupito sulla libertà umana di “Coprifuoco” al commosso racconto di un amore finito in “Chakra”.
Non riuscii a vederlo dal vivo quell'anno ma mi dissero che gli spettacoli non furono sempre all'altezza. Non so se fosse vero però una cosa la so: questo doppio disco, che esce ora a suggellare un decennale che a questo punto sarà anche l’unico, ci sono tanti pregi ma anche tanti difetti. Quegli stessi che, probabilmente, facevano dire a tanti che sì, forse dal vivo le cose non funzionavano del tutto.
I pregi sono che sul primo cd, che è sostanzialmente una raccolta con qualche inedito, si può ammirare la bravura di Vasco Brondi nel riuscire a ricavare tantissimo coi pochi mezzi a disposizione. Dagli inizi acerbi e ruvidi di “Piromani”, fino alla maturità e allo sguardo consapevole di “Stelle marine”, viene raccontato un percorso che si snoda per 18 brani e che non conosce cali di tensione. C’è qui il Vasco Brondi autore, con tutte le sue influenze: il forte debito con De Gregori (nel secondo cd ci sarà pure la sua “Bene”), con la Romagna musicale (la cover di “Ti vendi bene” è lì a testimoniarlo), con le grandi icone dei suoi anni da teenager (una versione live di “Oceano di gomma” cantata assieme a Manuel Agnelli). I due brani inediti, “Mistica” e “Libera”, rispettivamente primo ed ultimo pezzo in scaletta, non fanno gridare al miracolo ma è giusto che ci fossero, se l'intento era di chiudere il cerchio.
Quindi il primo cd va bene. Ci sta per chi ha già tutto, ci sta ancora di più per chi non lo conoscesse e avesse voglia di scoprirlo.
Il secondo, che sulla carta avrebbe dovuto essere il più interessante, lascia invece un po’ a desiderare. Perché è vero che registrare daccapo i propri brani, in presa diretta, con una band allargata e mantenendo il feeling dei concerti, poteva anche essere un'idea vincente. Il problema è che però, facendo così sono emersi tutti i limiti che già c’erano e che sono limiti soprattutto vocali. Il ragazzo di Ferrara è bravissimo in studio, la sua voce è funzionale a ciò che viene cantato ma dal vivo è scarso e qui, complice un mix a mio parere non del tutto azzeccato, viene fuori in maniera impietosa. I pezzi sono i soliti (fin troppo in realtà, sarebbe stata auspicabile una maggiore varietà rispetto al materiale contenuto nella prima parte), la band suona bene ma la resa vocale il più delle volte rovina tutto. Per non parlare poi del fatto che gli episodi più vecchi non possono essere “addomesticati”: quella era roba nata d'istinto e sentirla oggi col vestito delle cose più mature proprio non convince, si capisce che non è più autentico (confrontate le due versioni di “Piromani” e mi saprete dire).
Rimane giusto la conclusiva “Bene”, che non ha il fascino mesmerizzante della versione originale ma che fa il proprio dovere egregiamente e funge da gradito compendio. E poi una interessante versione di “Amandoti”, che ancora una volta ci illumina sul fatto che le influenze di questo progetto vengono da molto lontano.
Lo vedremo dal vivo nei teatri italiani quest'inverno, per una serie di date selezionate dove, immagino, scorreranno un po’ di lacrime. A modo suo la storia l’ha fatta. “Che cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero?” recitava in uno dei suoi primi pezzi, che è poi diventato anche il titolo di un libro. Beh, qualcosa da raccontare, lui che è diventato padre qualche anno fa, adesso ce l’ha. Che ci piaccia o meno, Le luci della centrale elettrica sono un capitolo importante del grande romanzo del rock italiano. Di sicuro però non siete obbligati a leggerlo: la cosa bella della musica è che si parte e si arriva dove si vuole.