L’espediente del manoscritto ritrovato (in questo caso una raccolta di poesie di tale Patrick R., ritrovate nella custodia di una vecchia tastiera Casio appena acquistata ed elaborate perché divenissero canzoni) è vecchio e fin troppo abusato, potrebbe essere interessante solo se la storia fosse vera ma, perdonatemi, dubito alquanto che lo sia.
Stessa cosa per quanto riguarda il titolo, quel 1984 che, al di là dell'omonimo romanzo di orwelliana memoria (di gran lunga quello invecchiato peggio, tra le grandi narrazioni distopiche del primo ‘900) per potersi rivitalizzare un poco, andrebbe riferito ad un anno di grande abbondanza nella storia della musica, con l’esordio degli Smiths, “Purple Rain” di Prince, “Born in the U.S..A” di Springsteen, “Some Great Reward” dei Depeche Mode, “The Top” dei Cure, “Let It Be” dei Replacements, “Powerslave” degli Iron Maiden, “It's My Life” dei Talk Talk e potrei continuare, se non fosse che ruberei spazio al vero oggetto di questo mio pezzo.
Detto in altri, termini, se vogliamo uscire dai riferimenti romanzeschi non credo così voluti, potremmo appunto dire che il 1984 fu uno di quegli anni in cui, da qualunque lato la si volesse girare, la musica godeva di ottima salute, i dischi vendevano alla grande, i grossi nomi erano all'apice della loro carriera e altri stavano compiendo i primi passi verso la grandezza.
I Warmhouse guardano a tutto questo? Non lo so, probabilmente no ma è innegabile che la loro proposta sia per molti versi legata al passato, a partire da una copertina che ammicca agli Strokes, per approdare ad un sound fortemente debitore di una certa cupezza New Wave ma con chitarre sufficientemente sporche e un'attitudine a tratti spavalda, da far venire in mente l'Indie Rock dei primi Duemila.
È l'esordio assoluto per questi ragazzi pugliesi e l'impressione è che, pur mediante la formula breve dell'Ep, abbiano già voluto impiegare cartucce pesanti.
Francesco Elios Coviello (voce), Agostino Nestola (chitarre), Davide Cimmarusti (batteria) e Pasquale Monti (basso), buttano fuori quattro brani di durata mediamente lunga, che permette loro di destreggiarsi abilmente all'interno delle strutture, costruendo pezzi con diverse variazioni ritmiche e cambi di atmosfera, a volte privi di una vera e propria forma canzone, corredati da una produzione grezza e potente, che valorizza in particolare basso e chitarra, in costante dialogo tra loro, protagonisti anche di diversi momenti strumentali, dove è chiaro che ai nostri piaccia lasciarsi andare liberamente.
Il beat iniziale della title track e le sporadiche linee di Synth, sono le uniche concessioni all'elettronica di un lavoro che, nonostante la cupezza generale degli umori, possiede il fluire energico di una normale produzione rock.
Si punta maggiormente su ritmi cadenzati e su strofe arpeggiate che tendono ad aprirsi in ritornelli mediamente efficaci, sostenuti dalla chitarra distorta. Se la title track e “Marbles”, che ha un incedere iniziale à la Joy Division, sono quelle che si richiamano maggiormente alla Dark Wave, “Molko Monday” (ogni riferimento ai Placebo è puramente casuale, immagino) è invece più incalzante e Brit Rock, con una parte centrale che, col suo alternarsi di vuoti e pieni, mi ha ricordato certe cose dei Pearl Jam periodo “Binaural”/“Riot Act”.
Insomma, un bello spettro di influenze e suggestioni, una scrittura libera che fuoriesce con entusiasmo e senza timori reverenziali nei confronti dei modelli. Tanti spunti interessanti ma anche, dispiace dirlo, una certa incapacità a concludere, come se ciascun brano promettesse in apertura molto più di quello che poi riesce a mantenere quando arriva alla fine.
Per il momento, comunque, ci basta questo: le capacità le hanno e nell'arco di questi 15 minuti abbiamo sentito abbastanza da attendere con fiducia il disco vero e proprio, quando saranno pronti.