America, terra di libertà.
Questo almeno fino al 1865, prima, lì dove si proclamava la libertà, l'economia era sostenuta dagli schiavi.
Poi, dopo anni di orrori, di guerre e discussioni, il Tredicesimo Emendamento segnò la fine della schiavitù, con milioni di persone di colore liberate.
Ma, ovviamente, c'è un ma.
E di quelli forti.
Lo si legge chiaro e forte all'interno dell'emendamento: la schiavitù è abolita, ma se si è colpevoli, se si è criminali, si torna ad essere schiavi, dietro le sbarre, dentro una prigione.
Quella libertà è di tutti, non dei colpevoli, o presunti tali.
Quel ma, quindi, sta alla base della politica americana, della sua sussistenza economica, pure, con politiche che negli anni si sono rincorse in modo da rendere quelli che un tempo erano schiavi, nuovamente schiavi.
Qualche numero:
in America risiede il 5% della popolazione mondiale.
Di questo 5% ben il 25% è in carcere.
Di questo 25% quasi la metà è composto da persone di colore.
Infine, un uomo di colore su tre andrà in carcere almeno una volta nella sua vita.
Numeri che fanno girare la testa, si direbbe ironicamente, ma che fanno pensare a un modello per tanti encomiabile, ma che proprio negli ultimi anni è lì che esplode, tra proteste e proiettili che volano.
Ava DuVernay, già regista del ritratto di Martin Luther King in Selma, torna a parlare di diritti e della negazione di questi diritti, questa volta con un documentario prodotto da Netflix che interroga senatori, politici, resistenti e chi all'interno del carcere ci lavora, per mostrare come la schiavitù esista ancora, come il segregazionismo, pure, come poco sia cambiato negli anni e come soprattutto ci sia un grande disegno -economico, ovviamente- a spiegare il tutto.
Lo fa in modo impeccabile, analizzando prima il contesto culturale, la forza del cinema e di quel The birth of a Nation di Griffith capace di far risorgere il Ku Klux Klan, analizzando poi le politiche anti-crimine (in realtà razziste) di Nixon, Reagan e Clinton, lo fa facendoci conoscere quell'Alec il cui ruolo già in Orange is the New Black veniva mostrato, con le prigioni diventate vere e proprie aziende in cui investire, in cui gli stessi prigionieri sono un fatturato, in cui tra cibo, lingerie da confezionare e lavori edilizi, tutto ha un tornaconto.
Nel mezzo, storie vere, storie di chi si è ribellato al sistema rimettendoci, storie di chi alla polizia non è sopravvissuto, in un racconto che mostra tutti i limiti di quella libertà tanto proclamata.
Ad intercalare il tutto, canzoni di protesta, nella loro evoluzione che arriva al rap, ai Public Enemy, a Common.
Come si dice alla fine, la schiavitù, il segregazionismo, sono ben lontani dall'essere spariti, e riprova è quel confronto, quel montaggio quasi speculare tra un'aggressione negli anni '50 e quella compiuta solo lo scorso anno ad una convention di Trump contro una ragazza di colore.
Il documentario, purtroppo, è uscito ancora in piena campagna elettorale, ma se si sposta, si allarga l'attenzione non solo alle persone di colore, ma anche ai mussulmani, ai messicani, si capisce che sì, quel XIII emendamento è quanto mai lontano dalla realtà.