Di AIDS si moriva.
Anzi, di AIDS si muore, negli anni '80, come negli anni '90, come oggi.
Solo che non se ne parlava e non se ne parla; allora perché tabù, perché il virus si propagava per comunità e "tipi" di persone su cui si preferiva non accendere i riflettori - omosessuali, drogati, prostitute -, oggi perché grazie ai progressi della medicina, di AIDS si muore meno, gli effetti collaterali sembrano quasi debellati, e la malattia apparentemente sconfitta.
Se non fosse che i sieropositivi, in Italia come nel mondo, sono tristemente in aumento.
Oggi, per svegliare le coscienze, abbiamo un film necessario come 120 battiti al minuto; ieri, negli anni '90, avevamo collettivi politici, impegnati in azioni informative, disturbanti, forti, in modo da smuovere un governo che non aiutava i malati, che non faceva prevenzione nelle scuole come altrove.
Act Up Parigi con le sue rigide regole, con il suo sistema interno per autoregolamentarsi, cercava di andare sempre oltre, di colpire chi - case farmaceutiche, altre associazioni, rami del governo - preferiva chiudere gli occhi, voltarsi dall'altra parte. Mentre l'AIDS diventava una piaga sociale, mentre di AIDS si moriva.
Nel frattempo, fuori e dentro le mura del collettivo, si faceva il conto delle proprie T, ci si confrontava sulle diverse cure quasi palliative, si organizzavano sit-in, si preparava il sangue finto per la prossima iniziativa, si ballava, si beveva, ci si innamorava.
In una normalità che lo spettro della morte non consente.
Fra queste mura si incontrano e si baciano Sean e Nathan, irriverente il primo, timido il secondo.
Un amore che nasce in fretta, che deve fare i conti con la malattia che avanza inesorabile, con la morte stessa che non può che essere un atto politico.
A dar loro volto e corpo, due attori tanto diversi quanto bravi come il fisico Nahuel Pérez Biscayart e il più pacato Arnaud Valois.
Non ci risparmia niente Robin Campillo, regista che al progetto dona tutto se stesso, ricordi compresi.
Non ci risparmia scene piene di bellezza e di poesia, in cui la polvere, come le cellule, vola, e scene di sesso esplicito, mitigato però, e reso così in parte necessario, dalle confessioni che fra quelle lenzuola avvengono, da prime volte che hanno segnato la vita - e l'attivismo di entrambi -, di slanci di passione che stanno ad indicare la voglia di farcela, di esserci ancora.
Scene che però hanno portato alla censura qui in Italia, dove il film è uscito vietato ai minori di 14 anni, quella fascia di età che si avvicina al sesso, e che non ne conosce i pericoli, visti i tempi in cui parlare di AIDS sembra non far più notizia, in cui di AIDS sembra non si possa più morire.
120 battiti al minuto è per questo un film che doveva essere fatto, che punta i riflettori su anni bui, e cerca di far luce, usando quelle proteste e quelle iniziative per colpire al cuore, quelle morti inevitabili se tutto tace, per urlare. Il dolore come la protesta.
Purtroppo, però, non solo di protesta e di necessità vive un film, e lì dove regia e attori sono al loro meglio, dove il messaggio e la storia sono punti fermi, è lo sviluppo di questa che convince poco, con l'amore che in più punti prende il sopravvento rispetto alla politica, oscurandola.
Se quei primi sorrisi, quei primi sguardi, facevano ben sperare, l'andare avanti di una storia d'amore che si fa cura, che si fa poi tradimento, aiuta poco la narrazione del film. Avremmo voluto sapere di più, più di quella Senna rosso sangue, più di quegli spari insensati davanti a dei manifestanti, più di Act Up, mentre nell'ultima –lunghissima - parte del film, ci si focalizza su una morte, sperando che questa non sia vana.
Non lo è, ma in un minutaggio così dilungato, finisce per affievolire la lotta e il racconto di quanto visto fino ad allora. E per sfiancare lo spettatore.
Ed è un peccato, perché con il ritmo giusto, con quei 120 battiti che fanno ballare, fanno entrare in azione, danno vita a chi vita vuole, l'attenzione era e rimaneva ben alta.