Le band sono un organismo strano, sostanzialmente una famiglia disfunzionale, con dei codici di comportamento del tutto particolari, molto spesso difficili da decodificare e comprendere dall’esterno. Per cui alle volte, nonostante all’apparenza tutto sembri procedere per il meglio, capita che l’autore principale delle canzoni inizi a condividere sempre di più la scrittura con gli altri membri del gruppo, nel tentativo di renderli più partecipi e assecondare le loro magari pressanti ambizioni artistiche, oppure perché conscio di non essere più in grado di garantire un certo standard qualitativo e quantitativo.
Non sappiamo esattamente a quale delle categorie appartenga il caso di Fran Healey, ma sta di fatto che dopo aver scritto completamente da solo i primi quattro album dei Travis (Good Feeling, The Man Who, The Invisible Band e 12 Memories), a partire da The Boy With No Name il frontman ha lasciato sempre più spazio agli altri componenti del gruppo Dougie Payne (basso), Andy Dunlop (chitarra) e Neil Primrose (batteria). Una scelta che ha coinciso – ma non è detto che ne sia stata la ragione, anzi – con la fine del periodo d’oro della band, che fino a quel momento non aveva nulla da invidiare, in quanto a successo, a nomi come Oasis, Blur e Radiohead, con i quali – tra l’altro – condivideva pure il produttore Nigel Godrich.
Nel frattempo è sostanzialmente successo di tutto, le mode e i gusti musicali mainstream sono cambiati con la velocità della luce, Fran Healey ha pubblicato un disco solista (il discreto Wreckorder, che vanta un’ospitata di Sir Paul McCartney), ma i Travis – a differenza di altre band loro contemporanee, finite presto nel dimenticatoio –, da bravi scozzesi non hanno mai mollato il colpo, privilegiando l’amicizia alla carriera, coltivando un rapporto stretto con i propri fan e prendendosi il tempo necessario tra un disco e l’altro, pubblicando solo quando avevano effettivamente qualcosa da dire.
Ed evidentemente, negli ultimi anni, qualcosa da dire ce la deve avere avuta soprattutto Fran Healey, che per questo nuovo 10 Songs si è incaricato nuovamente di scrivere tutte le canzoni di un disco dei Travis, cosa che non succedeva ormai da più di quindici anni. Ed è una gran bella notizia, perché quello che mancava nei pur buoni Where You Stand ed Everything at Once, qui finalmente c’è: ovvero una visione d’insieme molto forte, la sensazione di stare ascoltando un vero album, con un suo chiaro sviluppo narrativo e le canzoni che dialogano a vicenda, e non soltanto la raccolta dei migliori pezzi pescati tra le demo dei quattro membri della band.
Per cui non è sbagliato affermare che 10 Songs sia una sorta di ritorno a casa per i Travis, alle familiari atmosfere di dischi come The Man Who e The Invisible Band, lavori che a cavallo del nuovo millennio hanno saputo conquistare milioni di fan con canzoni intime e confortevoli come una corroborante tazza di tè caldo in una fredda giornata di pioggia scozzese. Lungo i 37 minuti di durata dell’album, infatti, non mancano i pezzi attraverso i quali la band può esprimere al meglio tutte le sue caratteristiche, come “Waving at the Window”, sorretta dal basso di Dougie Payne e dalla batteria di Neil Primrose, e “A Million Hearts”, dove è centrale il piano di Andy Dunlop, due perfette fotografie di quello che sarebbero potuti essere i Coldplay se non avessero voluto diventare per forza di cose i nuovi U2. Oppure “Valentine”, dall’incedere quasi Glam Rock, che ricorda molto da vicino le atmosfere del primo disco della band, Good Feeling, dove i quattro giocavano a rifare gli Oasis. Ma anche il Soft Rock à la Graham Nash di “Butterflies” e le atmosfere pastorali di “All Fall Down” valgono il prezzo del biglietto, quest’ultima scheletrica e minimale come il Bon Iver di For Emma, Forever Ago. E se i singoli “Kissing in the Wind” e “A Ghost” sembrano outtake di The Invisible Band, a metà tra la perfezione formale di Neil Finn e la giocosità di Paul McCartney, forse il pezzo più bello di 10 Songs è “The Only Thing”, un duetto con Susanna Hoffs delle Bangles dalla vaga matrice Country, dove l’intreccio tra le voci dei due cantanti e la pedal steel guitar del veterano Greg Leisz crea qualcosa di veramente magico. Il disco si chiude poi sulle rarefatte note di piano di “No Love Lost”, sulle quali Fran Healay prima declama «I woke up feeling shit this morning» e poi regala all’ascoltatore un ritornello che lo congeda con un barlume di speranza.
Chissà, se 10 Songs fosse uscito quindici anni fa, subito dopo 12 Memories, magari ora staremmo raccontando una storia diversa dei Travis, senza il calo di notorietà degli anni successivi. Così però non è stato e i quattro scozzesi hanno comunque proseguito per la loro strada, perfettamente consci di non giocare più nella lega dei campioni e allo stesso tempo grati di essere una band di culto che può vantare un pubblico fedele e numeroso, a cui ora hanno regalato l’album migliore degli ultimi tre lustri di carriera.