Appassionato di musica prima ancora che autore di canzoni, conoscenza filologica di decenni di storia del rock, con particolare attenzione ai nomi scomparsi e a quelli ingiustamente sottovalutati, si è costruito nel tempo una reputazione solida da guerriero dell'underground, di uno che lotta contro la corrente (la sua proposta non è esattamente tra le più popolari nel nostro paese), di quelli che pensano che la maggioranza non abbia per forza sempre ragione.
Questo è uno di quei dischi che non sarebbe dovuto nascere. Ci stiamo giustamente lamentando di tutte le occasioni che l'emergenza Coronavirus ci sta facendo perdere, tra concerti cancellati ed album rinviati, ma non ci capita mai di fermarci a pensare che può succedere anche che circostanze eccezionali generino progetti che non erano stati pianificati.
Luca era pronto ad entrare in studio coi suoi Companeros, per realizzare il quinto disco della sua carriera (il secondo di fila con questa band, che è poi la stessa che lo segue dal vivo) ma il lockdown ha ovviamente modificato i piani. Le lunghe ore passate in casa lo hanno portato a suonare spesso i nuovi brani in acustico (cosa che del resto fa spesso, soprattutto durante il weekend, quando pubblica sui Social qualche esecuzione casalinga), ne sono nati di nuovi e così, tra una cosa e l’altra, è venuta fuori l'idea di farci un disco.
Al momento non ci è dato sapere quali di queste “Dieci canzoni per dipingere il cielo” finiranno in versione elettrica sul prossimo disco e quali rimarranno inedite. È comunque un’occasione interessante per ammirare un lato meno esposto ma assolutamente complementare a quello più graffiante della musica dell'artista pisano. Che qui rinuncia al rock per abbracciare la dimensione del cantautorato Folk, con tanta chitarra acustica e poca armonica (anche se nelle due occasioni in cui compare fa decisamente crescere l’intensità dei brani), affiancato in tutte le tracce dal dobro e dal mandolino di Paolo Ercoli, indispensabile per disegnare quegli splendidi fraseggi melodici che si incastrano a meraviglia con la voce e valorizzano il flusso narrativo dei vari episodi.
Suono come sempre magnifico e voce che esce fuori alla grande, col suo timbro toscano così caratteristico e così espressivo. Se c’è infatti un plauso che va fatto a Luca è proprio quello di aver scelto l’italiano come lingua, rileggendo dall'interno della propria tradizione un genere che guarda esplicitamente all'America e al Texas in particolare. “Sonora Death Row” ne è l'esito più evidente: l'omonimo brano di Blackie Farrell viene qui reinterpretato in italiano, con una fedeltà al testo quasi filologica ma, allo stesso tempo, una cura letteraria non da poco, che ne mette ulteriormente in luce le doti di paroliere (del resto non è la prima volta che si cimenta in operazioni di questo tipo).
Questa tragicomica vicenda western, che si muove tra Mc Carthy e Don Winslow, è indubbiamente una delle perle del disco ma si farebbe un torto alle sue doti di songwriter se non si nominassero le altre: e così è difficile non rimanere ammaliati dalla dolcezza del primo singolo “Dove il cielo bacia il mare”, commovente canzone d'amore e di strada; oppure dalle atmosfere epiche di “Che Farà” e de “Il raggio verde” (chiara reminiscenza di Fitzgerald?) entrambe incentrate sulla tenacia di raggiungere i propri scopi, non piegarsi alle limitazioni dei desideri imposti dalla durezza della vita; ancora, “176esimo sogno di Luca Rovini” che cita scherzosamente Dylan sia nel titolo sia nell'andamento musicale, oltre che in un testo che presenta una galleria di surreali personaggi, e che vuole essere soprattutto una caustica denuncia di come spesso si tenda a preferire l'apparenza alla realtà. Si tratta anche del brano più rockeggiante, quello che potrebbe essere rifatto più facilmente in chiave elettrica.
Molto buona anche “Le bambole suonano”, impreziosita da uno splendido intervento di armonica, mentre “Dipingere il cielo”, con un Paolo Ercoli sempre più ispirato, è forse la traccia simbolo di questo lavoro, quella che più di tutte ne riassume la poetica (“E il cammino diventa più lieve e la tela si racconta e vive”), prima del Blues fumoso di “Quando è notte”, ideale brano di commiato.
È un disco che non avrebbe dovuto esserci e siamo tutti contenti che le cose siano andate diversamente. Luca Rovini dimostra ancora una volta il suo talento e la sua predilezione per una scrittura scarna ed evocativa, sempre aggrappata al reale, sia quando giochi la carta del grido rabbioso a sfondo politico e sociale sia quando (nella maggior parte di questi brani) inviti a gettare uno sguardo di gratitudine alla vita che si vive e alle cose che si hanno. Artista indubbiamente da scoprire.