Fatico a ipotizzare un’interpretazione spensierata di The Who[1].
Credo che dipenda dalla prospettiva, inevitabilmente storicizzata, di soggetto scrivente e oggetto di queste considerazioni.
Ma siccome con il passare del tempo non può migliorare la situazione, mi pare che l’analisi qui proposta sia sufficientemente obiettiva, pur se massimamente frammentaria.
Il tenore delle riflessioni non deriva neanche tanto dal fatto che con due morti al passivo si fatica a pensare ancora in termini di band.
Si rammenti che Pete Townshend, quando dichiarò che il suo più grande errore è stato entrare in un gruppo, non intendeva certo fare una boutade alla Liam Gallagher.
D’altra parte un tour del solo Roger Daltrey nel 2012 incentrato su Tommy (e altro) si risolve in un interprete, lui, di altro autore-compositore (ancora Townshend).
The Who sono sempre stati il loro chitarrista, innanzitutto; il quale al di là della sua passata (e forse invidiata) deflagrante giovinezza – gli siamo grati (forse lo fu anche Jimi Hendrix) per le innumerevoli Rickenbaker distrutte e i Marshall sfondati – è un cervello (art school o meno) che non si ferma mai (chiedere a David Bowie: due canzoni di The Who in Pin Ups) ed ha scritto splendide pagine dove il formale buon umore in realtà si fonde con la rabbia[2].
Da parte mia, poi, ho sempre Peter Meaden nella mente. Ovvero fashion is a pashion.
Dunque non c’è niente di facile nel commentare un animo per lo meno torturato.
“Pulito” e “difficili”: le due chiavi di lettura meadeniane restano inevitabili anche oltre la sintesi del modism.
“Substitute”: la modernità di questa canzone (tale nella sola forma; una serie di aforismi, nella sostanza) è impressionante.
Potrei semplicemente declinare il suo titolo e molti argomenti di cui tratto qui nello Speaker’s Corner senza approfondirli.
Ecco che scrivo del gruppo che in realtà solo raffina un’opera individuale, come del resto dimostra il fallimento Quadrophenia ove si tenti di frazionare a misura di componente l’opus complessivo.
Pete “Captain Achab” Townshend anche oggi (e forse oggi a maggior ragione) non è certo una figura rassicurante in termini intellettuali, almeno di primo acchito.
Ma in seguito ...[3]
Basta leggere ciò di cui scrive Townshend: solo impari lotte mai abbandonate.
Ma egli è un combattente (non un ottimista: quelli Moby Dick nemmeno li considera, solo li distrugge – manca il loro search perché essi sono un modesto incidente per il leviatano che è la vita di ciascuno).
A pretesa conclusione: non termino mai un ascolto di The Who con un senso di soddisfazione, bensì di condivisione delle eterne insoddisfazioni esistenziali con – nel rispetto di Moon (“a band is only as good as its drummer”), Entwhistle e Daltrey (in ordine di mia “crucialità” per il gruppo) – un artista immenso.
Sono tranquillo: Townshend mi copre le spalle, anche se il finale per tutti è, nel migliore dei casi, quello di Butch Cassidy e The Sundance Kid (ma anche finire parlando con un cavallo forse è meglio di tante altre chiusure).
[1] Il numero di incisi in parentesi nel post è dato prevalentemente dal mio stile, però indubbiamente gli incisi sono provocati anche dall’argomento.
[2] Nemmeno la sua prova di autore di racconti è trascurabile: Horse’s Neck (per i più avventurosi, o meno avvezzi all’Inglese, tentare di reperire la traduzione italiana: Fish & Chips e altri racconti, Minimum Fax, può essere divertente, fra l’altro in costa del volume il titolo non è identico).
[3] Non che essere David Bowie sia più semplice – le sue accelerazioni poi (!), fra Poe e Lovercraft, finito il retrogusto burroughsiano (pur se “The Bewlay Brothers” non dissiperà le sue ambiguità …) – come autore, anche se sempre mascherato da personaggio.