C’è stato un poeta che diceva di essere nato vasaio. O meglio, che lo era proprio in quanto poeta, chè il poeta è un artigiano, e plasma le sue parole come i vasai con l’argilla.
Si chiamava Pierluigi Cappello, è stato cantore, cristallino e terribilmente vitale, di un Friuli terremotato. Ha scritto usando parole dolorose e incantate, fatte di quel simbolismo precario in cui tutto sa di rugiada, crolli e risalite. In una sua poesia c’è una parola stupenda, “Inniò”.
Sta dentro la poesia omonima, che si conclude con (vado in traduzione, sarebbe quantomeno di troppo scrivere in friulano) “Cammina pure con i piedi leggeri e sporchi come quelli di chi fischiettando va per strada, ma come camminando su un filo di lama sottile, e al dove vai che tu gli chiedi, lui, sorridendo, ti risponde senza inizio o pensiero di fine: «Io? Io vado scalzo verso inniò», i suoi occhi il celeste, pitturato da un bambino”.
Non ha una traduzione ben precisa, inniò. Il senso è “in nessun dove”, ma svilire in una perifrasi una parola così intimamente bella (anche, e forse soprattutto, nella sua eufonia) sarebbe una brutalità che davvero non ci meritiamo. La vorrei vedere nel vocabolario italiano come sinonimo di utopia, inniò, lì, a racchiudere tutti i non luoghi immaginabili, tutte le strade provinciali delle nostre anime.
È un esercizio di equilibrismo poetico assolutamente fine a sé stesso, il mio, me ne rendo conto. Ma d’altro canto io difendo l’inutile, lo sapete. Però pensate: una parola per tornare ad immaginare l’indicibile e perdersi in un purissimo esercizio di anarchia letteraria, sciogliendoci dal grigiore del “dovunque”.
Sarebbe uno squarcio nel cielo di carta di un mondo sempre più uguale a sé stesso, la convocazione a corte che provoca lo scarto nella disturbante ritualità del testa o croce dei Rosencrantz e Guildenstern di Tom Stoppard. Un cambio di rotta culturale sfolgorante, racchiudere in una parola il tutto (o il niente, a seconda dei punti di vista) di un luogo incerto, non definito, forse neanche realmente esistente: affidarsi ciecamente all’invisibile.
E sì, mi rendo conto che il mio è davvero un esercizio futile, il circostante è sempre quello che è, e, giusto per citare nuovamente Cappello, “Ci si sfila dal mondo così, come da un vestito stanco delle feste, quando viene la sera”.
Però penso anche che non si potrà mai essere così cinici da non cercare parole che possano fare da rifugi antiaerei contro la rassegnazione. E allora voglio andare di poesia in poesia, di preghiera laica in preghiera laica, costruire corridoi umanitari fra le parole e con le parole: “il futuro è quello che rimane, ciò che resta delle cose convocate/ nello scorrere dei volti chiamati”.
E se ho fatto tutto ‘sto discorso è solo perché è tornato (sempre per nostra estrema fortuna) un altro argonauta dell’indicibile, forse il più alto (di certo fisicamente, ma questo è un altro discorso) di tutti.
Trova sempre le parole giuste, Paolo Benvegnù. Quelle necessarie, quelle che servono a non vedere il visibile.
Mancava da quattro anni, il “Collettivo Benvegnù” (Paolo Benvegnù a voce, chitarra acustica, sintetizzatori, Luca Baldini a basso, pianoforte, chitarra acustica, Daniele Berioli alla batteria, Gabriele Berioli a chitarre elettriche ed acustiche, Saverio Zacchei ai fiati e Tazio Aprile a pianoforte, Fender Rhodes, dulcimer, Hammond ed orchestrazione degli archi), e questo È inutile parlare d’amore (che è il suo nono album in vent’anni precisi di carriera solista), arriva come un breviario di resistenza umana in un mondo sempre più meccanico, con l’amore come unico atto realmente eversivo possibile.
Fatte le debite presentazioni, io andrei al nocciolo della questione, non prima di aggiungere che tutto questo è antipasto di una lunga intervista fatta a Paolo, che uscirà nei prossimi giorni: l’aiuto che i due pezzi si daranno nel farsi comprendere sarà vicendevole e reciproco.
Detto questo, si parte.
Lavoro aperto da “Tecnica e simbolica”, che gira intorno ai saliscendi cupi del pianoforte e si allarga, abrasa dagli interventi delle chitarre elettriche nei ritornelli e ossigenata dalla coda di archi finale. Anche poeticamente poi, l’inizio è quantomai programmatico, con un “Tu non sei, non sai niente / hai venduto il talento per sentirti importante / ma la gente è cattiva, s’innamora per niente / si innamora di un altro, quanto è strana la gente / è come dar da mangiare ai cani, e dai cani farsi mangiare” affilato come selce.
A seguire arriva una “L’Oceano” che, impreziosita dalla voce di Brunori Sas (con cui la voce del nostro si incastra alla perfezione), scorre ariosa lungo una spina dorsale di pianoforte, su cui i fraseggi tessuti dalla chitarra elettrica si infrangono come onde sugli scogli, in un turbine dinamico vorticoso e strabiliante che scolpisce perfettamente la geografia del perdersi raccontata dal testo: “Da sempre, fuori di me, esistono foreste che puoi accarezzare / e navi cariche di rose e tempeste, venti impossibili da governare / e negli occhi, nei miei occhi, l’invincibile sete dei deserti / di chi non può partire, di chi non sa come tornare”.
A calmare le acque ci pensa “Pescatori di perle”, che poggia su trame pianistiche, sostenute dal caldo strumming acustico della chitarra e gonfiato da un tappeto di archi che si intreccia con le incursioni soliste della chitarra elettrica. Tutto, manco a dirlo, scortato dagli strabilianti immaginari poetici filmati dai nostri: “L’amore a volte sopravanza il sole, non lo riuscite a sentire / non vi piacciono i sogni, forse vi piace naufragare / senza nessuna dignità / e vi nutrite di paure, e di banalità / diventate incoscienti come onde del mare / e noi saremo come il vento, impossibili da decifrare /ma quando sarà il tempo, vi insegneremo nuovamente a respirare”.
A segnare “Marlene Dietrich” ci pensa una pasta ritmica giocata sul turbinare scosceso del basso, che si intreccia perfettamente con le allucinazioni sintetiche delle tastiere e con le aperture degli archi che allargano il ritornello, in quello che, letterariamente, è un potentissimo omaggio (forse il più evocativo del disco) al femminile: “Come Rodolfo Valentino non ho più parole / non ti so aiutare, mi si spezza il cuore / come Greta Garbo curva sul telaio, penna e calamaio, la poesia e l’acciaio / quindi chiamami per nome, lasciami morire come quando fuori piove / come Marlene Dietrich puoi dimenticare oppure rifiorire / oppure vendicarti di me”.
“Il nostro amore indifferente” si lascia attraversare dall’intreccio fra l’arpeggiare notturno della chitarra elettrica e lo strumming di quella acustica, con basso, piano e sezione archi a sospendere un bridge nebbioso ed onirico. E, nel perfetto rincorrersi fra musica e parole, arrivano versi intensi e crepuscolari, “E vorrei bere dalle tue mani come fanno i bambini / ma è tornata la notte, io ti vengo a cercare / come fanno gli assassini / e allora mi troverai nei tramonti di aprile / io ti parlerò quando non c’è più niente da dire / liberi nello spazio e nel tempo / nell’inverno infelice, l’invincibile estate /ma in ogni istante il mondo è sempre più distante / in ogni istante del nostro amore indifferente”.
A fare da giro di boa troviamo una “27/12” (primo dei due pezzi già presenti in Solo fiori) che vede la partecipazione di Neri Marcorè, tratteggiata dagli arpeggi minerali della chitarra acustica e dai fraseggi acquosi del pianoforte e che, complice il timbro pastoso dell’ospite, guadagna in quella potenza evocativa per cui già il testo fa un gran lavoro: “Io credo ancora all’impossibile / e correre con gli occhi dei bambini negli spazi immensi della mente / ed osservare nel silenzio le giornate che si spengono / come l’incenso negli appartamenti e nelle cattedrali”.
“Our love song” chiude la doppietta tratta dal già citato precedente EP, catapultandoci in un labirinto di riff al fulmicotone, chitarre acide, bassi saturi e pattern ritmici dritti, perfettamente descritto da un paio di versi assolutamente folgoranti come “La violenza e l’amore / sanno di Ketamina”.
Altrettanto tesa è “Canzoni brutte”, elettrizzata da schitarrate dal vago colore funky, da un basso caleidoscopico, da un prechorus nebbioso e da un’orgia di synth a chiudere, in un testo che ci regala un altro paio di cazzotti lucidissimi come “Fidelizzare la storia, tanto non c’è più memoria” e “Vorrei potere stabilire con certezza la domanda e l’offerta / prendermi quello che resta / tra bieca semplificazione e volontà di seduzione / così mi sono procurato delle frasi che non c’entrano niente / ma piaccion tanto alla gente / che ci si può identificare e scaricare e poi comprare”.
“In der nicht sein” poggia su una sezione archi dal sapore romantico, con i sintetizzatori ad organizzare sturm und drang atmosferici, il basso a scavare incessante e le chitarre a tremolare inquietudini e la voce a sgranare un carosello di immagini potentissime: “Sono mare e strumento, un incontro imperfetto / sono il plenilunio delle penne a sfera / il delirio e il container, l’assoluto e il revolver / la finestra e il cortile dove brucia l’estate / l’automobile è in fiamme, come brucia il mio amore /gli astronauti perduti alla radio non si fanno sentire”.
A dissolvere le nubi ci pensa la delicatissima “Libero”, che scorre cristallina lungo gli arpeggi della chitarra acustica, su cui intervengono, a poco a poco, i ricami malinconici di fiati ed archi, una raffinatissimo basso dal sapore latino ed un Hammond camosciato, ad accogliere versi cristallini come “Chiedi a quella rosa di ascoltarti ancora / chiedi alle sue spine di svegliarti se si vola / chiedile se è bianca o rossa di vergogna /chiedile se è giunto quel momento in cui si sogna” e “Chiedi al tuo sorriso di inventarsi una parola / chiedi cosa è vero, se sono anch’io un bambino / chiedi l’incoscienza per restarmi più vicino”.
“L’origine del mondo” esplode di archi e piano a là “Rosemary plexiglass” (sempre sia lode), per precipitare lungo discese elettriche e fuzzate, in quello che è uno dei momenti più tempestosi del disco, sottolineato dalle immagini furibonde rilasciate dal testo: “Ti voglio come un dio violento dentro all’inferno degli uomini / noi siamo il nostro dio violento dentro al deserto degli uomini / e insieme sconfiggeremo il tempo / tu sei l’incendio impossibile che salverà tutto il mondo / il mio coltello invisibile che salverà tutto il mondo / siamo l’incendio impossibile che salverà tutto il mondo / dalla sua gioia impossibile”.
A chiudere l’album ci pensa una “Alla disobbedienza” che si arrampica lungo pareti di fiati asfissianti, chitarre urticanti ed un’elettronica acida ulteriormente straniata da un incedere ritmico serrato, per finire a spegnersi in una coda strumentale densa e plumbea. A corollario di tutto, l’ennesima epifania poetica, quasi straziante nella sua lucidità: “Guardami negli occhi per mandarmi a memoria / siamo senza soldi, senza scarpe, senza dio e senza gloria / e non rimane altro che pensare, e immaginare è divertente / quanto è inutile parlare d’amore”.
Davvero servono parole di chiusura? Dai, su. Ascoltate Paolo e leggete Pierluigi Cappello: troverete tutto lì.