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REVIEWSLE RECENSIONI
È finita la pace
Marracash
2024  (Island Records)
IL DISCO DELLA SETTIMANA HIP HOP / URBAN
8/10
all REVIEWS
07/01/2025
Marracash
È finita la pace
La notizia non è il COME l’album di Marracash sia uscito e neppure il fatto CHE sia uscito, quanto piuttosto che razza di disco abbia tirato fuori. Sempre credibile e rilevante anche dopo aver passato i 40: Marracash è il nome da guardare per chi pensa che il Rap italiano (come sta già dimostrando quello americano) possa risultare creativo anche nella sua fase adulta.

Che in questi ultimi anni la strategia di promozione di un disco sia divenuta più importante del disco in sé è cosa abbastanza acclarata. Così com’è più che evidente che, nella dittatura dei social network, in cui conta più l’apparire che l’esserci davvero, la scelta di rendersi invisibili o quella di “droppare” (perdonatemi ma ogni tanto sento il bisogno di far vedere che sono al passo coi tempi, appunto) un disco dall’oggi al domani senza nessuna qualsivoglia forma di annuncio, ormai non fanno più notizia e, anzi, sono ormai assimilate alla stregua di una qualunque operazione di marketing.

Ecco perché non me la sento proprio di accodarmi ai cori di chi da giorni sta urlando alla genialità di Marracash, per il fatto di avere pubblicato il suo nuovo album a sorpresa, “così, de botto, senza senso” (citazione di Boris che temo sia ormai piuttosto abusata ma che mi piace sempre molto, perdonatemi ancora una volta). Il nuovo album di Marracash esce senza uno straccio di promozione ma non certo perché il rapper della Barona sia avulso da certi meccanismi; semplicemente, oggi va di moda pensare che attiri di più il farsi vedere controcorrente, piuttosto che utilizzare compulsivamente Instagram e Tik Tok come fa ormai la stragrande maggioranza degli artisti.

Quindi, la notizia non è il come l’album di Marracash sia uscito e neppure il fatto che sia uscito (dopo tre anni dal precedente un po’ si era fatta quell’ora, nonostante il tour sia stato piuttosto lungo). La notizia è, piuttosto, che razza di disco abbia tirato fuori.

 

Già, perché a venticinque anni dai suoi primissimi passi nella scena, a sedici dalla pubblicazione del disco d’esordio e a 45 anni d’età, Fabio Bartolo Rizzo avrebbe raggiunto una fase della carriera in cui si diventa semplicemente troppo vecchi per fare questo mestiere. Non fraintendetemi: l’Hip Hop ha festeggiato recentemente il suo cinquantennale ed è un genere oramai storicizzato, esattamente come il Rock. In America queste cose le sanno perfettamente, conoscono le radici, così che anche nomi decisamente stagionati come Eminem o Public Enemy godono ancora di credibilità artistica indiscussa.

Da noi le cose stanno un po’ diversamente: il genere è divenuto realmente di massa da poco meno di quindici anni, abbiamo una scarsa cultura musicale e nessuna attenzione alle fonti, il pubblico (mediamente giovanissimo) che segue i vari artisti, tende a fidelizzarsi sulla scena in generale, piuttosto che sui singoli nomi. Non è un caso che i vari Sangue Misto e Colle Der Fomento oggi siano più che altro realtà di nicchia e che ci sia un ricambio di pubblico molto più veloce di quello che si potrebbe immaginare con altri generi (bisognerebbe fare un’analisi più approfondita, me ne rendo conto, però mi stupisce che uno come Ghali, che all’epoca di Album era ascoltato anche dai bambini, oggi non sia più così rilevante nella dimensione mainstream; dall’altra parte è anche vero che la recente reunion dei Club Dogo ha registrato una risposta di pubblico ben superiore a quella di quando erano regolarmente in attività).

Sto senza dubbio dicendo un sacco di inesattezze ma, a pelle, la mia sensazione è che l’Hip Hop italiano sia ancora troppo giovane per capire come possano cavarsela i suoi esponenti di mezza età. Ecco, in mezzo a tutto questo, Marracash sembra avere una marcia in più, e lo aveva dimostrato già ai tempi di Persona, quando aveva trattato argomenti personali ed introspettivi con un’acume, una profondità ed un’efficacia stilistica che nessuno dei suoi illustri colleghi aveva fin d’ora dimostrato di avere.

 

È finita la pace viene presentato come la conclusione di una trilogia iniziata proprio con Persona e proseguita con l’altrettanto valido Noi, loro, gli altri; ascoltandolo risulta evidente non solo che sia così, ma anche che dall’inizio del percorso sia stato operato un vero e proprio allargamento di orizzonte: se Persona si concentrava sulla dimensione individuale mentre il capitolo successivo esplorava il tema delle relazioni, È finita la pace proietta il suo sguardo sul mondo, inteso come realtà sociale e politica nella quale siamo immersi.

È per questo che già nel primo brano, “Power Slap”, potente e dalle sonorità prettamente old school, con un flow adatto a far capire chi comanda, non si fa problemi ad offrire un quadro impietoso della situazione odierna della scena, lamentando il calo della qualità a causa di artisti attenti solo a logiche di marketing, facendo tranquillamente nomi e cognomi (Petrella) e lanciando frecciate a gente la cui identità non è così difficile scoprire (Fedez).

Decadenza artistica, crisi climatica, guerre, strapotere del capitalismo, impazzare degli algoritmi e le prospettive incerte dell’intelligenza artificiale, sono protagonisti di una narrazione che dedica sempre molto spazio alle vicende personali, tra l’esaurimento nervoso di cui è stato vittima all’indomani dell’uscita di Noi, loro, gli altri, a una dimensione affettiva che lo vede mai appagato ed estremamente esigente quando si tratta di ciò che è in grado di riempire il desiderio del cuore (“Lei chissà dove, non credo che esista”, dice in “Lei”, sorta di negazione leopardiana; ma anche la condanna della propria disordinata attività sessuale in “Troi*”, titolo volutamente ambiguo per un brano niente affatto misogino).

Testi come sempre profondi, dunque, ben lontani dai triti cliché del genere o appiattiti sui due argomenti (soldi e donne, di solito) che anche alcuni dei suoi coetanei sembrano prediligere (vedi Guè, che per quanto tecnicamente validissimo, a livello di barre è rimasto a vent’anni fa).

 

Dal punto di vista musicale poi, È finita la pace rappresenta un altro centro, seppure non raggiunga le vette di Persona (quelli di Noi, loro, gli altri sì, però). Apprezzabile la scelta di non inserire nessun feat, in un frangente storico (ma forse è solo la mia impressione) in cui stanno un po’ venendo fuori gli aspetti più venali ed artisticamente poco rilevanti di tale pratica. C’è il solo Fabio dietro al microfono, dunque, affiancato dai soliti produttori Marx e Zef, che gli confezionano un vestito funzionale e mai particolarmente ingombrante, ponendo il focus sul beat e sulla parola, senza troppi orpelli attorno.

È, per ovvi motivi, un lavoro più compatto dei precedenti, dove gli inserti melodici sono tanti come sempre (i brani Hip Hop vecchia scuola sono giusto una manciata) ma dove non si scade mai nell’eccessiva leggerezza o nella banalità “commerciale” (si veda soprattutto “Gli sbandati hanno perso”, l’unico interamente cantato, che abbraccia il Pop ma si ferma sempre un attimo prima di rendersi ridicolo). Una prova vocale eccellente e senza autotune, quasi ad accontentare anche coloro (e sono ancora tanti purtroppo) che pensano che avere una bella voce sia ancora l’unico parametro con cui si dovrebbero misurare un artista.

Non molti neppure i campionamenti, di cui, tra Ivan Graziani e i Pooh, il più significativo è forse quello di Bluem (su “Mi sono innamorato di un AI”) che dimostra un’attenzione non scontata per le nuove realtà musicali.

Sempre credibile e rilevante anche dopo aver passato i 40: Marracash è il nome da guardare per chi pensa che il Rap italiano possa risultare creativo anche nella sua fase adulta.