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REVIEWSLE RECENSIONI
29/05/2020
Perturbazione
(Dis)Amore
I Perturbazione sono di nuovo tra noi ed è meraviglioso. Può darsi che siano fuori tempo massimo, può darsi che la musica in Italia stia definitivamente andando in un’altra direzione (sempre che ci sia ancora una scena musicale quando tutto questo finirà) ma al momento ci interessa poco.

Ci sono quattro anni tra “Le storie che ci raccontiamo” e “(dis)amore” ma la notizia ormai non è più questa. Avremmo dovuto introdurlo così, questo disco, questo ritorno in pista di una band importantissima per la scena musicale italiana, che dopo avere sperimentato col Pop e con l’elettronica ha deciso di tornare all’ovile di quel mondo più scarno e sognante di cui si era appropriata sin dalle origini, dall’estetica British, in bilico tra Smiths, Cure, Divine Comedy, Stone Roses e altre cose così, il tutto ovviamente declinato e pensato alla loro maniera, con la creazione di un suono che ha segnato il primo decennio del Duemila ed ha in qualche modo fatto la storia, sebbene non abbia mai avuto il successo di pubblico che avrebbe meritato.

Doveva essere questa la linea narrativa iniziale, ma ormai non può più essere così. Nel frattempo è successo quello che è successo, il mondo intero si è chiuso su se stesso, i nostri contatti con l’esterno si sono tenuti in piedi solo in forma virtuale ed è stato inevitabile che anche le uscite discografiche subissero qualche sconvolgimento.

I piemontesi sono stati, oltretutto, tra i primissimi che hanno deciso di posticipare il tutto, prima che si creasse un fenomeno ormai divenuto abituale. Li attendevamo a marzo, si è sperato per un po’ che si potesse fare a fine aprile, infine si è deciso per fine maggio.

Ma c’è una piccola storia da raccontare anche per “Io mi domando se eravamo noi”, penultimo brano in scaletta e probabilmente il più bello dell’intero lavoro, il cui video è stato girato il 7 marzo, proprio appena prima del lockdown che ci vede ancora tutti coinvolti. Le immagini di una Milano frequentata e piena di vita non sono state ritenute adatte ad essere mostrate mentre i suoi cittadini vivevano il periodo iniziale della quarantena ed il tutto è stato così spostato di un mese.

Oggi che lo abbiamo in rotazione da qualche settimana, è divenuto un interessante tema di meditazione su come canzoni nate da precise contingenze, per esprimere determinati pensieri, arrivino, sulla spinta di altre contingenze, a significare cose totalmente altre. Fa strano ma quella domanda del titolo ormai non sarà più quella che una coppia rivolge a se stessa dopo anni di relazione bensì anche quella che tutti noi ci faremo, stretti tra la nostra vita di prima, la situazione attuale e le paure e le speranze di quel che succederà.

Ma torniamo all’inizio. I Perturbazione hanno pubblicato un nuovo disco e la cosa è meravigliosa a prescindere. Ci mancavano parecchio e soprattutto pesava quel velo di incertezza avvertita poco prima dell’ultimo commiato: “Le storie che ci raccontiamo” era un ottimo lavoro, almeno io lo vedevo così, ma il tour non era andato benissimo e permanevano dubbi sulla direzione che stavano seguendo.

Oggi hanno scelto di azzerare tutto. Le sperimentazioni sono lontane, gli ultimi due dischi sono stati cancellati (sarà interessante capire come li vedono ora, glielo chiederò senz’altro quando avrò modo di intervistarli) e l’aggancio col passato è stato operato subito prima dello split con Gigi Giancursi ed Elena Diana, l’evento che, per molti fan della prima ora, ha significato la vera fine del gruppo.

Premesso che non sono assolutamente di questa idea (e le cose che scrissi all’epoca sono ancora lì a dimostrarlo) lo trovo comunque un tentativo interessante: tornare alle origini, alla band acqua e sapone che erano prima, alle atmosfere agrodolci e alle canzoni da cameretta in stile Belle and Sebastian, senza però la presenza di quel chitarrista che forse più di tutti aveva spinto per continuare in quella direzione. Avevano bisogno di provare che erano ancora capaci di scrivere, dopo due lavori che avevano un po’ diviso il loro pubblico. Ci sono riusciti, secondo me, ma hanno anche voluto fare le cose in grande. “(dis)amore” contiene 23 canzoni, è idealmente un album doppio, anche se può essere contenuto in un unico cd. Era da “Del nostro tempo rubato” che non risultavano così prolifici e, potenza dei numeri e delle coincidenze, quel disco usciva esattamente 10 anni fa.

Attenzione a non farsi fuorviare, però: il paragone esiste solo a livello di dimensioni perché poi i contenuti sono molto diversi. Se quello era un lavoro volutamente sperimentale, dove esploravano parecchi territori nuovi e, in qualche modo, mettevano già le basi per quello che sarebbe divenuto “Musica X”, questo è invece molto più omogeneo e decisamente più semplice da decifrare.

È un disco dal suono scarno, a tratti quasi nudo, dove la chitarra acustica costituisce il più delle volte l’ossatura principale dei brani e dove piano, elettrica, fiati ed archi si limitano a ricami leggeri. Quasi del tutto sparita l’elettronica, completamente assente quel suono stratificato e “pieno” che caratterizzava i dischi precedenti.

Non è però scontato che tali soluzioni coincidano con una maggiore fruibilità dei contenuti: dura 70 minuti, ci sono 23 canzoni e se anche non fossimo da anni preda di un pesante deficit di attenzione, la carne al fuoco è comunque tale da richiedere un impegno fuori dal comune.

È un disco costantemente in bilico, così come la coppia la cui storia si dipana nell’arco delle canzoni, senza che per questo si possa parlare di un concept album (vince l’impressionismo sulla coerenza narrativa). Si passa dal primo incontro all’innamoramento, attraverso tutte le fasi del rapporto, da quelle più euforiche e spensierate a quelle più problematiche. E c’è sempre, in sottofondo, la consapevolezza che nulla sia scontato, che la chimica non basta, che le affinità elettive non si concretizzano da sole, che bisogna lavorarci, che esistono situazioni paradossali, che a volte i sentimenti sono ingannevoli e che occorre guardare i fatti e interrogare la ragione. È per questo che i testi sono spesso, più che introspettivi, analitici, e che i bozzetti di vita quotidiana siano coerentemente alternati a riflessioni lucide e problematiche sulle diverse sfaccettature dei rapporti.

Il viaggio è lungo e attraversa un po’ tutte le sfumature del sound della band pre “Musica X”. Partenza con “Le spalle in un abbraccio”, che è stato anche il primo singolo pubblicato, quello che parla dell’innamoramento, con quell’atmosfera già di profetica malinconia e il bel finale da piccola orchestra Folk. Il ritorno alle origini è particolarmente esplicito ne “Le regole dell’attrazione”, ricamo neanche troppo velato a “Se mi scrivi”, brano ritmato con tanto di ritornello irresistibile. In effetti su questo aspetto i Perturbazione hanno lavorato molto: il disco può essere sicuramente visto come un percorso a tappe lungo un itinerario tortuoso ma è altrettanto vero che molti degli episodi qui contenuti hanno senso compiuto e potrebbero senza problemi essere trattati come potenziali singoli. C’è grande attenzione ai ritornelli, alle melodie vincenti, anche in quei momenti (vedi “La nuda proprietà”, con quella sua secca batteria elettronica e il piano che cade pesante sulla chitarra arpeggiata) dove non è proprio l’immediatezza a farla da padrone. Sia come sia, canzoni come “Taxi taxi”, “Chi conosci davvero”, “Lasciarsi a metà” ma anche la più contenuta “Le sigarette dopo il sesso”, rappresentano un perfetto compendio di tutto quello che abbiamo sempre amato nel songwriting di questo gruppo e siamo sicuri che dal vivo faranno perfettamente il loro dovere. Lo stesso Tommaso Cerasuolo sembra particolarmente in confidenza dietro al microfono e ci sono certi momenti dove si diverte a prendere note più alte del consueto dimostrando tutto sommato una certa dimestichezza. Insomma, se la pausa doveva anche servire a riflettere, diciamo che i frutti si sono visti.

Molto riuscita e molto divertente è anche “Regime alimentare”, coi fiati a dare ritmo incalzante, per una ironica stigmatizzazione di come la cultura del cibo si sia trasformata nella società odierna in un’ennesima manifestazione di edonismo e vuota apparenza.

A fare da contraltare c’è invece “Il ragù”, meraviglioso bozzetto acustico incentrato sul mandolino, dove Tommaso racconta una storia commovente con delicato realismo e attenzione ai dettagli per mostrare come, in fin dei conti, la morte di una persona lascia dietro di sé anche tutta una serie di particolari che, banali o meno, rendono ancora più cruda e reale la dipartita.

Non si rinuncia del tutto alla sperimentazione, visto che “Il paradiso degli amanti” e “Non farlo” sono entrambe ammantate di un’aria straniante e non seguono pedissequamente la normale forma canzone. Tristi e suggestive appaiono poi “Silenzio” e “L’inesorabile”: la prima è una ballata orchestrale dal sapore cameristico mentre la seconda è chitarra e voce, con giusto qualche leggera orchestrazione in sottofondo, riflessione crepuscolare su quanto l’alterità sia spesso difficile da gestire (“Non posso stare ma non voglio andarmene e questo nulla è tutto quello che mi resta”).

E che dire di “Le nostre canzoni”? È forse il pezzo più Perturbazione di tutti, quel tributo agrodolce alla giovinezza (ma dove mai la sentiremo ancora la parola “misto” al posto di “mixtape”) e a quelle canzoni che ci hanno salvato la vita, per dirla con Morrissey (non a caso nel testo viene citata pure “I Know It’s Over” e solo per questo varrebbe la pena incorniciarla). Ma c’è anche “Dieci fazzolettini”, che si muove su questa falsariga: il cammino dell’io narrante che passa da bambino a uomo, a padre, con il fazzoletto di carta a fungere da correlativo oggettivo di quello stesso cammino. Curiosità filologica: a memoria, dovrebbe essere il primo brano della loro discografia dove la parola “perturbazione” compare nel testo.

Se la chiusura con “Le assenze”, piano elettrico ed effetti, brano interlocutorio tipico dei loro finali, non è tra le cose più memorabili del lavoro, la già citata “Io mi domando se eravamo noi” è invece straordinaria, una ballata sontuosa ed emozionante, che parte con una semplice chitarra acustica e poi si arricchisce di fiati divenendo ampia ed ariosa, vagamente epica. Non credo di esagerare se dico che si tratta di una delle cose più belle scritte dal gruppo, uno dei principali motivi per essere grati del loro ritorno.

Tirando le somme, “(dis)amore” è un gran bell’album. Vi impegnerà parecchio, occorre entrarci in punta di piedi e rimanere coinvolti fino alla fine, perché comunque le canzoni sono tante e le cose che vengono dette ancora di più. Non tutto funziona (“Come i ladri”, “La sindrome del criceto” e “Temporaneamente” le ho trovate un po’ dei filler) ma la maggior parte delle cose sì e capirete che, date le dimensioni dell’oggetto, è una bella vittoria.

I Perturbazione sono di nuovo tra noi ed è meraviglioso. Può darsi che siano fuori tempo massimo, può darsi che la musica in Italia stia definitivamente andando in un’altra direzione (sempre che ci sia ancora una scena musicale quando tutto questo finirà) ma al momento ci interessa poco. Al momento, la cosa più importante è che questo disco è uscito. Ascoltiamocelo con calma e speriamo di vederli presto dal vivo perché i loro concerti, e non solo i concerti in generale, ci mancano davvero parecchio.

 


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