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REVIEWSLE RECENSIONI
14/04/2021
Dead Poet Society
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L'esordio sulla lunga distanza dei losangelini Dead Poet Society è un feroce ruggito chitarristico appena ammorbidito da un gusto centrato per le melodie

Al loro esordio sulla lunga distanza, i losangelini Dead Poet Society, volevano dimostrare che quel nome, mutuato dal titolo inglese de L’attimo Fuggente, pellicola del regista Peter Weir datata 1989, fosse espressione non solo di una condivisa esperienza al college, ma anche della capacità della band di uscire dagli schemi e di realizzare quell’anticonformismo predicato dal professore interpretato da Robin Williams.

Pur non essendo una novità, quel titolo astratto e decisamente respingente è già una piccola prova di coraggio, a cui fa seguito una scaletta di canzoni dai titoli scritti senza i consueti spazi tra una parola e l’altra, e brevi skip vocali a intervallare alcuni brani. Un’impalcatura meno convenzionale, ma non certo rivoluzionaria.

Quel che importa, invece, è la musica, e di sicuro questo disco, pur mantenendo delle coordinate abbastanza decifrabili, manifesta una certa attitudine del quartetto a evitare l’irreggimentazione in schiere di band tutte uguali, per trovare una formula che, se non propria innovativa, sia quanto meno spavalda. Se da un lato, il ricorso a melodie di facile presa e la duttile voce del cantante Jack Underkofler (il cui falsetto, talvolta, richiama alla mente il timbro di Mark Bellamy dei Muse), farebbero pensare a un rock annacquato e tardo adolescenziale con vista sull’airplay radiofonico, quando c’è da menare le mani, i quattro ragazzi non si tirano indietro e non hanno assolutamente paura di stordire le orecchie con un approccio decisamente noise.

Picchiano, con riff graffianti e distorsioni a palla, bilanciando, poi, la furia agonistica con azzeccatissimi inserti indie pop. Elementi, questi, che danno alla scaletta un incedere imprevedibile, caratterizzato da improvvisi cambi tempi, rallentamenti e accelerazioni, esplosioni di furore e armonie suadenti. Alla fine, pur in un contesto che produce qualche deja vu, è impossibile non riconosce a questi quattro ragazzi un impeto e una sfrontatezza che sono gli elementi che più mancano oggigiorno a un genere spesso racchiuso in involucri vuoti e solo formalmente appetibili.

Introdotto da uno skip, il disco si apre con l’atmosfera ferale di .futureofwar. delirio noise strumentale di chitarre stritolate: non certo il miglior biglietto da visita per chi non è abituato a certe sonorità o si attende, come nella maggioranza dei casi, un bel singolo apripista. La scaletta prosegue, poi, con .buymewhole. potente heavy blues che esibisce nel dna la foga garage dei White Stripes, mentre .Getawayfortheweekend. esplode in un anfetaminico crescendo che sfocia in un ritornello acchiappone, di quelli che si mandano subito a memoria.

Tre randellate che colpiscono nel segno, ammorbidite da ballate elettriche che danno respiro al clima tambureggiante con convincenti melodie, come la vibrante .americanblood. e la suntuosa I Never Loved MySelf Like I Loved You (titolo spaziato) che possiede un refrain che vira verso un’irresistibile indie pop.

Sono solo episodi, però, in un mare magnum di elettricità e vigore: il bluesaccio di .CoDa. evoca riff settantiani, ribaditi dalla slide e dal passo caracollante di .loveyoulikethat. arrembante e feroce, mentre .lovemelikeyoudo. apre addirittura a stranianti scenari industrial, mentre .beenherebefore. cita i primi Muse e .georgia. impazza tra sportellate elettriche in un turbinio di ampere.

Ciò che rende questo disco speciale è la capacità dei Dead Poet Society di spaziare, di creare suspence, pur rimanendo fedeli a un suono che sembra fin da subito ben identificabile. Che randellino senza posa, e lo fanno, o giochino con la melodia, in ogni caso si può affermare: questi sono i Dead Poet Society. Che, giova ribadire, non inventano nulla, ma puoi sentire il loro giovane sangue ribollire di passione e autenticità. E questo, amici miei, fa quasi sempre la differenza.  


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