L’Alive Naturalsound è la prestigiosa etichetta discografica di Los Angeles che dal 1993 in poi promuove e distribuisce il meglio del Rock/Blues internazionale declinato volta per volta in modalità Garage, Punk, Psych e Soul. Un piccolo paradiso in terra, quindi, per tutti gli appassionati delle sonorità più viscerali e genuine come si evince facilmente scorrendo i nomi delle band del loro catalogo: Black Keys, Left Lane Cruiser, Datura4, Radio Moscow, giusto per citarne qualcuna. Tra i tanti meriti anche quello di credere in nuovi progetti e in nuovi artisti che altrimenti faticherebbero, e non poco, a farsi conoscere ed apprezzare. Solo nel 2016 l’Alive ha rilanciato la carriera degli irlandesi Bonnevilles e curato gli esordi dei King Mud e dei Sulfur City della inarrivabile lead singer Lori Paradis, tre dischi da urlo che ancora non ci stanchiamo di ascoltare. Adesso è la volta degli Heath Green and The Makeshifters e del loro primo ed omonimo album per il quale sono già stati spesi solo commenti entusiastici. Il quartetto, capitanato dal cantante/chitarrista Heath Green, veterano della scena musicale di Birmingham (Alabama), si completa con l’amico di lunga data Jason Lucia alla batteria, Jody Nelson (seconda chitarra e armonica), Greg Slamen (basso e piano), per questi ultimi due una manciata di album all’attivo nel gruppo Throght The Sparks.
Inoltrandoci tra i solchi del disco tornano in mente 50 anni di grande Rock, Leon Russell e gli Humble Pie sono, per loro stessa ammissione, le influenze più marcate se aggiungiamo i Black Crowes di Amorica e band di più recente formazione come i Rival Sons e i Moreland & Arbuckle il quadro si completa: un mix fatto di polverose scorribande elettriche, spigolosità Garage e melodie Bluesy dove i quattro mettono a frutto l’esperienza accumulata durante la lunga gavetta. E’ comunque la voce di Heath Green, somigliantissima a quella di Joe Cocker, fulcro ed arma vincente della band, sia che aggredisca i brani più tirati, sia che si cimenti nelle splendide ballate presenti nel disco. Le dieci canzoni scorrono via con gusto e misura, senza inutili fronzoli stilistici, affrancandosi del tutto dal dovere di ingentilire i toni in nome di un presunto imprinting commerciale, colpendo nel segno più e più volte. L’incalzante opening track Out To The City, con un assolo d’armonica in coda da far saltare sulla sedia, Secret Sisters, quasi una rilettura in chiave Garage/Soul di un classico di Howlin’ Wolf, l’emozionante ballata Ain’t It A Shame, l’intensa e rigorosa Living On The Good Side. Tra i continui cambi di registro il divertimento è assicurato con gli stop and go di Hold On Me, il Punk/Blues scarnificato alla maniera di Tom Waits di Took Of My Head e il frenetico Boogie Ain’t Ever Be My Baby. In sintesi, grande band e straordinario debutto, uno dei dischi più eccitanti incrociati di recente che, in mondo perfetto, stazionerebbe per mesi in cima alle classifiche.