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REVIEWSLE RECENSIONI
07/07/2017
Deep Purple
Infinite
L’onestà dell’approccio e le indubbie doti tecniche della line up evitano al disco di naufragare, ma InFinite, se non va a fondo, neppure decolla mai, né c’è una canzone del lotto che ravvivi i ricordi di un’antica ed epica stagione

I numeri sono impressionanti: settant’anni di età anagrafica, cinquanta di carriera, venti album in studio, oltre a una settantina fra live e raccolte. I Deep Purple, gruppo icona dell’hard rock britannico, stanno però per mettere fine alla loro storia. Lo dice il titolo di un album che gioca con le parole (InFinite), lo suggerisce il nome dato al loro prossimo tour che toccherà anche il nostro paese (The Long Goodbye Tour), lo decreta una creatività ridotta ai minimi termini già da parecchio tempo (bisogna tornare a Perfect Strangers del 1984 per trovare un disco davvero convincente). InFine, ovviamente, non aggiunge nulla di nuovo a una carriera straordinaria ma volta ormai al pensionamento. E’ semplicemente il seguito fatto e finito del suo predecessore Now What ?!, l’ennesima prova senza infamia e senza lode di un gruppo di veterani duri a morire e che, inutile dirlo, non devono dimostrare più nulla a nessuno. I Deep Purple, insomma, stanno insieme solo per il piacere di suonare, sorretti da quel ringhio di antica gloria che ti impedisce di deporre le armi troppo facilmente di fronte all’avanzata inesorabile del tempo. InFine esibisce i medesimi pregi e gli stessi difetti di Now What?!, né più né meno. Il disco è ben prodotto dal guru Bob Ezrim, che compatta il suono senza lasciare nulla all’improvvisazione e tiene la barra del comando con coerente autorevolezza. Gillan, da parte sua, ha dato tutto e se la gioca più con il mestiere che con le leggendarie corde vocali. Tengono bene alla distanza sia Glover che Paice, a cui il tempo sembra aver portato maggior rispetto che al succitato frontman. Dato per scontato che il buon Steve Morse non sarà mai Blackmore, e tuttavia il suo lo sa fare, quello che manca davvero alla band è il genio musicale di John Lord: lo stile di Don Airey, così ridondante e artificiale, ha inciso profondamente sul nuovo suono, rendendolo più bolso e inutilmente sovrabbondante. Ecco, allora, che InFinite somiglia a un album molto più progressive che hard rock, in cui riff potenti e zampate assassine, vero marchio di fabbrica della band, hanno lasciato il passo a qualche manierismo di troppo. L’onestà dell’approccio e le indubbie doti tecniche della line up evitano al disco di naufragare, ma InFinite, se non va a fondo, neppure decolla mai, né c’è una canzone del lotto che ravvivi i ricordi di un’antica ed epica stagione. La chiosa, poi, affidata alla cover di Roadhouse Blues dei Doors, sta al resto della scaletta come una cozza marinata in un panino alla Nutella. Non la conclusione migliore di una carriera straordinaria, ma nemmeno un disco che ne infanghi la memoria: InFinite è semplicemente la partita d’addio di un vecchio fuoriclasse, il cui tocco rimane indiscutibile, ma a cui la panza e il fiato corto hanno annebbiano idee e precisione.