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REVIEWSLE RECENSIONI
03/10/2017
Tricky
Ununiform
Non convince del tutto il nuovo lavoro di Tricky: nell’insieme un disco con una sua dignità artistica ma privo delle intuizioni a cui l’anima più cupa del sound di Bristol ci ha abituati.

La premessa di rito per artisti come Tricky, in attività (o sul mercato, dipende dai punti di vista) da trent’anni - la formazione originale dei Massive Attack da cui Tricky si separò immediatamente risale proprio al 1987, dovremmo comunque festeggiare la ricorrenza in qualche modo - è che non si può essere tutta la vita più avanti di tutti gli altri, soprattutto con un genere così complesso come il suo. Maxinquaye è del 95 e se Ununiform nel 2017 suonasse ancora così forse dovremmo preoccuparci.
Partiamo però dal presupposto che, alla luce di come sono andate le cose, il trip-hop ha avuto ragione. L’insieme di elettronica, dub, rap, house, black music e post punk, ovvero quel calderone di citazioni, richiami e sample che ha dato vita a una delle vette creative della musica di tutti i tempi, oggi resta un comodo riferimento pronto all’uso a cui tutto può richiamarsi. Il sound di Bristol resta tutto sommato una delle forme artistiche più eclettiche in cui ci si possa esprimere.
Non ci credete? Prendete proprio questo nuovo disco di Tricky e fate play sulla traccia 5: il trap di “It’s Your Day” è la conferma che, per chi si è fatto le ossa con certe sonorità anni 90, le sfide della modernità sono un gioco da ragazzi. E se date un ascolto alle basi che accompagnano il genere musicale che spopola tra i giovani d’oggi vi sorprenderete nel trovare così tanti punti in comune.
A parte questo, del nuovo lavoro di Tricky, purtroppo, non c’è molto da dire. La copertina di Ununiform svela solo metà della sua faccia, e la metafora per un disco riuscito non del tutto ci sta tutta. Un po’ perché se fai cose di questo tipo devi risultare molto più fresco. Essere solamente cupo, oggi, non basta più.
Il disco parte con “Obia Intro” che suona indiscutibilmente Tricky, questo è il suo specifico e ciò che lo rende riconoscibile tra mille. Nel solco della tradizione anche “Same As It Ever Was” che, nella strofa, prende a prestito le farneticazioni new wave dei Talking Heads di “Once In A Lifetime”, in una specie di scioglilingua costruito su una base che ricorda, nei suoni e nei cambi, addirittura la techno di Detroit.
Le muse che accompagnano Tricky in quest’avventura sono diverse e vanno dalle “veterane” Martina Topley Bird e Francesca Belmonte a new entry del calibro di Asia Argento e Avalon Lurks, chiamata a interpretare “Doll”, forse l’episodio migliore dell’album: chitarra, voce, qualche loop sotto e un po’ di elettronica minimal.
“New Stole” porta una venatura blues al disco, ed è inutile rimarcare l’efficacia del connubio con l’electro per il risultato finale. “Wait For Signal” è un momento di toccante intimità espressa lungo un dialogo tra voce maschile e femminile (Asia Argento), entrambe sussurrate a cavallo di un downtempo elettronico. L’ospite di “Blood Of My Blood” è invece Scriptonite, artista kazako che, con la presenza del rapper russo Smoky Mo, giustifica il passaggio a Mosca in qualità di sede di alcune delle registrazioni dell’album, insieme a Berlino. “Bang Boogie”, il pezzo in tandem con Smoky Mo, è l’episodio più radicalmente hip hop del disco e colpisce per la sua brevità, un record da 1:18 da mostrare ai detrattori del genere e a chi detesta la formula compositiva dei pattern ripetuti alla nausea.

Dopo le superflue schitarrate di “Dark Days”, interpretata da Mina Rose qui molto sottotono rispetto alla penultima traccia in cui ritorna voce solista (“Running Wild”) e soprattutto alle cose che fa come solista, ecco “The Only Way”, un brano che richiama l’andamento armonico discendente di “Hell Is Round The Corner” e quindi, per la proprietà transitiva dei sampler, “Here” di Alessia Cara che ha campionato a sua volta “Glory Box” dei Portishead fino all’archetitpo di “Ike's Rap 2” di Isaac Hayes.
Restano da commentare l’anomalo guizzo di BPM sostenuti di “Armor” e il suo incipit stranamente solare, brano che comunque si inabissa nel giro di quattro battute nelle profondità classiche che caratterizzano il mood di Ununiform, e il nefasto presagio di “When We Die”, che vede finalmente la presenza di Martina Topley Bird.
Non si può dire che Ununiform non sia multiforme, caratteristica a cui Tricky ci ha abituato nei suoi lavori precedenti. La consueta formula degli ospiti nel ruolo di voce solista non lascia tempo al già sentito e ogni pezzo prende la forma più adatta a supportare ogni singolo interprete, a seconda della sua indole.
Ma il filone è quello delle canzoni che iniziano e finiscono allo stesso modo, il che rende molto complicato tutto il resto perché è tutto nelle mani, anzi nelle voci di canta, e nella capacità di mettere e togliere le tracce strumentali in modo da portare al massimo l’alternanza delle parti e la dinamica propria del genere, riuscendo in questo modo a variare la geometria dei brani. Ne esce un album di ordinaria amministrazione, se non conoscessimo l’autore: Tricky ha una fama troppo grande (meritatissima) come sperimentatore, nel complesso da gente come lui ci si aspetta molto di più.