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REVIEWSLE RECENSIONI
02/09/2017
Cage The Elephant
Unpeeled
Il pregio più grande di Unpeeled, oltre ad essere suonato bene e prodotto ancor meglio (ma questo, nel 2017, non dovrebbe più fare notizia) è infatti quello di contenere il meglio di una produzione che, seppure ancor piccola, si è sempre mantenuta priva di cali di intensità

Scelta inusuale, questa, per i Cage The Elephant: pubblicare un album live dopo quattro dischi (momento di per sé più che propizio per cominciare a tirare le prime somme) ma rileggendo il proprio repertorio in versione acustica; cosa che, se nel rock esistono delle leggi esatte, normalmente viene fatto un po' più avanti e con le spalle ben coperte da altre testimonianze di concerti.

Ma tant’è, inutile fare troppi calcoli. La band del Kentucky ha esordito nove anni fa e già nel 2012 ha dato alle stampe Live From The Vic in Chicago, quando i dischi usciti erano solo due. Che poi, a voler ben vedere, non è neppure una cosa che non si usi fare, al giorno d’oggi.

Ad ogni modo questo Unpeeled (che è un termine un po' più originale per evitare il solito, inflazionato, Unplugged) arriva dopo che il loro Tell Me I’m Pretty si è aggiudicato, a inizio anno, il Grammy per il miglior album rock.

Giusto o non giusto che sia questo riconoscimento (perché poi alla fine questi premi lasciano sempre il tempo che trovano) bisogna ammettere che la band di Matt Schultz ha saputo ritagliarsi piuttosto in fretta un posto di sicura rilevanza tra quelle uscite dalla seconda ondata del Brit Pop, andando a seguire piuttosto pedissequamente le orme di Arctic Monkeys e Kasabian ma producendo, almeno per chi scrive, risultati di più alto valore ed eleganza.

Pur dovendo precisare che non sono mai impazzito più di tanto per queste sonorità (le ho a tratti trovate insopportabilmente arroganti e modaiole), bisogna ammettere che “Unpeeled” si staglia come un lavoro indispensabile nella discografia dei Cage The Elephant, il modo migliore per far risaltare ancora di più la loro bravura come autori di canzoni.

La genesi del lavoro, stando a quanto hanno dichiarato loro stessi, sarebbe la seguente: la RCA, che li ha sotto contratto dal 2013, quando pubblicarono Melophobia, avrebbe voluto un Greatest Hits, come passo successivo al quarto disco. Il gruppo non era molto d’accordo e così si sarebbe imbarcato in un piccolo tour acustico limitato ai soli Stati Uniti e avrebbe poi ricavato un disco dal meglio di quelle serate. In questo modo avrebbero accontentato tutti: Unpeeled è certamente una raccolta di successi ma al contempo è un qualcosa per cui anche i fan di vecchia data saranno contenti di spendere soldi.

Ma cerchiamo di andare un po' più nel dettaglio, per capire a cosa siamo di fronte: i pezzi sono 21, per un totale di 80 minuti di musica. In pratica, la capienza del cd è stata sfruttata fino al limite tollerabile. È un difetto, probabilmente. Vero che ci sono dischi dal vivo doppi e addirittura tripli ma parliamo di gente con un repertorio di ben altra vastità. In più, la formula scelta non si presta ad essere sostenuta per troppo tempo. Un conto è in sala, con loro che ti suonano davanti, un conto è una registrazione che ascolti in qualunque tipo di contesto. Morale della favola: se non si è dei fan sfegatati, alla lunga questo lavoro mostrerà inevitabilmente il suo lato debole.

Non aiuta neppure il fatto che l’editing e l’assemblaggio dei pezzi sia stato fatto in maniera alquanto raffazzonata: va bene prendere il materiale da differenti show, però almeno cercare di assemblarlo come se si trattasse di un concerto unico! Invece, qui si sentono distintamente gli stacchi e il pubblico a volte è registrato a volume altissimo, a volte appare in secondo piano, altre volte addirittura inesistente. Ne consegue un’impressione generale di Cut and Paste per forza di cose artificiosa, frammentaria; per chi ama i dischi dal vivo che provano a riprodurre fedelmente il clima del concerto, questo può dunque risultare un difetto imperdonabile.

I lati negativi però finiscono qui. Unpeeled presenta infatti il meglio del repertorio del gruppo e lo fa con arrangiamenti semplici ma di gran classe: la formazione base è accompagnata da un quartetto d’archi e da un percussionista, i suoni sono nel complesso spogliati dalla loro componente più ruvida anche se le chitarre distorte qua e là compaiono lo stesso (l’niziale Cry Baby, da questo punto di vista, è piuttosto carica) anche se ovviamente meno invadenti e sature nel loro impatto complessivo. Ne deriva una rilettura che, se non stravolge proprio del tutto i vari episodi (che restano tutti ben riconoscibili e fedeli allo spirito originario), riesce però a farne risaltare il loro più autentico cuore melodico, pur al netto di arrangiamenti lineari, che non fanno certo gridare al miracolo.

Matt Schultz e compagni, al di là dei gusti personali e di tutto quel che può essere detto su di loro, hanno scritto pezzi di indubbia efficacia, questo credo che sia necessario metterglielo in conto.

Il pregio più grande di Unpeeled, oltre ad essere suonato bene e prodotto ancor meglio (ma questo, nel 2017, non dovrebbe più fare notizia) è infatti quello di contenere il meglio di una produzione che, seppure ancor piccola, si è sempre mantenuta priva di cali di intensità e anzi, ha saputo progressivamente accrescere il proprio livello qualitativo disco dopo disco.

Ci sono dunque tutti i brani che hanno disegnato il cammino percorso finora dalla band americana: ascoltare in rapida successione le varie Aberdeen, Trouble, Come a Little Closer, Shake Me Down, Take It Or Leave It, Cold Cold Cold, oltre ovviamente a Ain’t No Rest For The Wicked, che li fece conoscere al mondo, è senza dubbio un bel godere.

Il tutto in una scaletta ben equilibrata tra vecchi e nuovi brani, anche se ovviamente la parte più consistente la occupano gli ultimi due dischi, con “Tell Me I’m Pretty”, di fatto, suonato quasi per intero.

A rendere le cose più interessanti ci sono tre cover, e non sono peraltro scelte banali: c'è Whole Wild World, un brano del 1977 di Wreckless Eric, che è anche stata usata come singolo di lancio, visto che è stata trasformata in un frizzante inno Pop. Molto bella anche la rilettura di Golden Brown degli Stranglers, mentre la scelta più originale è anche quella che convince di meno: la loro Instant Crush non possiede nemmeno lontanamente l’eleganza e la bellezza dell’originale dei Daft Punk ed è un peccato perché nelle occasioni in cui i nostri rallentano il ritmo e si danno alla formula della ballata romantica, i risultati sono notevoli: si vedano le splendide Cigarette Daydreams, Telescope o la conclusiva Right Before My Eyes, che sono indubbiamente tra i momenti più alti di questo disco.

È un bel lavoro, questo “Unpeeled”, che ci permette di osservare forse il lato migliore di una band che, pur senza mai far gridare al miracolo, ha dimostrato di saper scrivere canzoni rock che siano in grado di camminare con le proprie gambe. E questa veste, lo ripetiamo, lasciata andare molta dell’irruenza muscolare che si poteva trovare nei lavori in studio, ce lo fa capire ancora di più.

Difficilmente, io penso, potranno muoversi da dove sono. Eppure, in attesa del prossimo disco, è l’ideale per passare qualche piacevole momento. Dopo tutto il rock è anche sano intrattenimento, giusto?