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REVIEWSLE RECENSIONI
28/03/2024
Steve Hackett
The Circus and the Nightwhale
"The Circus and the Nightwhale" è uno dei lavori di Steve Hackett più ispirato di sempre. Un concept album a metà tra il romanzo di formazione e il racconto di un rito di passaggio, di durata contenuta ma densissimo di spunti e ospiti, dove Hackett fa semplicemente quel che gli viene meglio, con un'ispirazione che va addirittura migliorando con l’età.

L’ho già scritto in passato ma vale la pena ripeterlo: al di là delle continue operazioni nostalgia portate avanti in sede live (per altro di livello altissimo, a livello di resa complessiva) la carriera solista di Steve Hackett si è sempre svolta all’insegna di una invidiabile continuità e coerenza, senza mai dare ai suoi ascoltatori nessun motivo per rimpiangere i Genesis. Anzi, della fase “Prog” della band britannica il chitarrista è sempre stato erede e diretto continuatore: a parlare sono i suoi (numerosi) dischi solisti, non certo l’incessante recupero del materiale dell’ex band che nonostante tutto continua a dominare le scalette dei suoi concerti.

The Circus and the Nightwhale è un concept album, a metà tra il romanzo di formazione e il racconto di un rito di passaggio, col protagonista Travla che, a detta dell’autore, contiene diversi spunti autobiografici, un espediente letterario per dire “le cose che è un sacco di tempo che aspetto di dire”.

Durata contenuta (una quarantina di minuti, come ai vecchi tempi) ma densissimo di spunti e soprattutto di ospiti: da Amanda Lehmann a Nick D’Virgilio, da Hugo Degenhardt a Benedict Fenner, Malik Mansurov al tar (uno strumento a corde di origine persiana, oggi suonato soprattutto nei paesi dell’Asia centrale), nonché John Hackett, fratello di Steve, al flauto. Musicisti che vanno ad impreziosire e a stratificare maggiormente un insieme di canzoni che vede schierata al completo la band che lo accompagna dal vivo: Roger King alle tastiere, Rob Townsend al sax, Jonas Reingold al basso, Craig Blundell alla batteria e, dietro il microfono, il solito Nad Sylvan.

 

Diciamolo chiaramente: questo è uno dei lavori di Hackett più ispirato di sempre, penso non sia assolutamente uno scandalo andare a prendere titoli quali Spectral Mornings e Voyage of the Acolyte come termini di paragone. Vero è che dischi sottotono non ne ha praticamente mai fatti, però a questo giro l’impressione è che il chitarrista abbia realizzato qualcosa di importante, una vera e propria tappa di un percorso artistico, piuttosto che una mera raccolta di canzoni per giustificare il tour.

La formula del concept ha probabilmente aiutato: le canzoni sono legate assieme a formare un’unica suite e il dover raccontare una storia ha rappresentato un fattore importante nel tenere alta l’asticella dell’ispirazione.

Per il resto, si tratta di un compendio della classica scrittura di Hackett: brani dal piglio aggressivo come l’iniziale “People of the Smoke”, “Taking you Down” o il singolo “Circo Inferno”, orientaleggiante nelle melodie e roboante nel ritmo, impreziosita da un ottimo assolo di sax; accanto a questi, episodi dal sapore epico e ad alto contenuto orchestrale: “Enter the Ring” è senza dubbio la migliore in questo senso, con la bella voce di Amanda Lehmann ed un suggestivo intervento del flauto, che va ad inserirsi su atmosfere che ricordano da vicino certe cose di Selling England by the Pound (“The Battle of Epping Forest” soprattutto), ma anche “Get me Out” è notevole, soprattutto perché è uno di quei momenti in cui Hackett si ricorda di essere anche un chitarrista validissimo, oltre che un autore di canzoni.

 

La seconda parte del disco è in generale quella più intensa ed elaborata, quella dove le radici Progressive del suo autore vengono fuori maggiormente ma anche quella in cui orchestrazioni e inserti cameristici sono portati al massimo dell’espressività. “Ghost Moon and Living Love” è in questo senso l’apice dell’intero lavoro, il pezzo più lungo e complesso, una ballata intensa ed ispirata dove sono presenti tutti gli ingredienti che hanno reso grande la proposta di Hackett e dove tutto, dalla melodia alla parte solista, alle soluzioni di arrangiamento, funziona a meraviglia. Per non parlare poi dell’accoppiata “Into the Nightwhale”/“Wherever You Are”, grande impatto unito ad orchestrazioni epiche, in qualche modo sintesi perfetta di quanto ascoltato in precedenza.

Titoli di coda affidati alla strumentale “White Dove”, composizione per chitarra classica che non aggiunge nulla ma che ci aiuta a congedarci dalla storia attraverso un’operazione di defaticamento.

 

Non si possono chiedere chissà quali svolte stilistiche ad un musicista ultra settantenne che da anni fa semplicemente quel che gli viene meglio. Di conseguenza, l’obiezione che si tratti della “solita roba” non regge proprio: certo, è sempre la solita roba ed è un disco solo per appassionati di un certo genere, ma è allo stesso modo la conferma che l’ispirazione dell’ex Genesis (sempre che abbia ancora senso chiamarlo così) va addirittura migliorando con l’età.

Sarebbe bello, anche per la forma particolare che ha, ascoltare questo nuovo disco per intero, nel tour che partirà dopo l’estate e che toccherà l’Italia a novembre. Purtroppo è già stato annunciato che a questo giro sarà la volta delle celebrazioni di The Lamb Lies Down on Broadway, per cui temo che ci toccherà assistere all’ennesima (per quanto magnifica) rievocazione di quel periodo, col nuovo materiale relegato ad un paio di canzoni se andrà bene. Ce lo faremo andare bene lo stesso ma per quanto mi riguarda continua ad essere una decisione incomprensibile.