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MAKING MOVIESAL CINEMA
Speciale Venezia 2019
76ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia
2019 
PREVIEW
all MAKING MOVIES
14/09/2019
76ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia
Speciale Venezia 2019
Ad una settimana dalla fine di una delle edizioni più ricche e glamour della Biennale, Lisa Costa ci racconta in pillole le anteprime più salienti di quest'anno.

Ad Astra - di James Gray

Venezia sembra legata a doppio filo ai film nello Spazio.
Dopo Gravity, dopo First Man, tocca a Ad Astra.
Dopo Sandra Bullock, dopo Ryan Gosling, tocca a Brad Pitt avventurarsi nel buio più profondo indagando in realtà su se stesso.
Perché è sempre così con i film che portano sulla Luna o su Marte: sono modi per raccontare l'intimo degli uomini che lì sono stati.
Non è diversa la pellicola di James Gray.
Direzione Nettuno, direzione scoprire che ne è stato di una spedizione data per dispersa da 30 anni e che ora potrebbe essere la causa di tempeste elettriche letali per il pianeta Terra. Così, viene coinvolto Roy McBride, figlio di chi quella spedizione la guidava ed esca per riallacciare le conversazioni. Ma solitario, divorziato, testardo, Roy non sarà facile da tenere a guinzaglio.
Già così, la trama non spicca per originalità o interesse.
Mettiamoci dentro una struttura a capitoli fatta di prove ed errori e il giudizio si fa ancora negativo.
Ci sono scimmie indemoniate, pirati lunari, scudi improvvisati a minare le valutazioni psicologiche di un particolarmente coinvolto e intenso Pitt. C'è una pesantezza generale data da una voice over retorica che non permette di godere degli ovviamente spettacolari effetti speciali. C'è poi un cast mal sfruttato, con tante piccole parti date a grandi attori (Donald Sutherland, Ruth Nega, Natasha Lyonne) che presto, prestissimo, scompaiono dalla storia.
Resta quindi l'amaro in bocca, per un'occasione sprecata, per l'ennesimo titolo di genere che non spicca.

Venezia è legata a doppio filo alle storie sullo Spazio, ma non ha ancora trovato quella giusta per farla brillare.

J'accuse - di Roman Polanski

Non è la prima volta che l'Affare Dreyfus diventa un film.
Ma se a farlo è un regista diventato suo malgrado controverso come Roman Polanski, i riflettori si riaccendono su un caso in cui inevitabilmente si cercheranno specchi della sua situazione di accusato.
Ora, se perfino per una presidente di giuria è difficile separare l'uomo dalla sua opera, ci si prova qui.
Dicendo fin da subito che tutta la polvere, la leggera noia che i film storici solitamente comportano, vengono spazzati via.
Da un ritmo, che si fa sempre più incalzante, che racconta l'Affare in modo tecnico e preciso. 
Da un fluire della trama che avvolge e avvince, grazie anche a un Jean Dujardin capace di essere umano, dietro la solita maschera da mascalzone (tocca ammettere invece che Louis Garrel è talmente ben truccato da risultarmi irriconoscibile fino ai titoli di coda). 
Da una ricostruzione ottima, a tratti teatrale, che non può che avere numerosi appigli al triste mondo di oggi. 

La solita lezione di storia c'è ma è raccontata da un maestro che sa come catturare l'attenzione e mantenerla. Chapeau.

 

Ema - di Pablo Larrain

Il mio rapporto con Pablo Larraìn non è mai stato dei migliori.

Ultimamente andava meglio.

Andava?

Perché uso il verbo al passato?

Faccio fatica a spiegarlo.

Forse va ancora bene, sta migliorando.

Il fatto è che Ema, la sua ultima fatica in anni che lo stanno vedendo laboriosissimo, fatico appunto ad inquadrarla.

Esagera, eccede, segue tante piste.

Ha dalla sua una protagonista che ispira antipatia al primo sguardo.

Ha una storia forte raccontata a pezzi di puzzle ma pure non approfondita a dovere.

Ma ha scene sublimi, coreografie che mostrano la forza della danza contemporanea e pure del reggaeton (per buona pace del sempre bellissimo Gael Garcia Bernal, che parte in una filippica da applausi contro il genere). Ha una fotografia che rende tutto migliore, anche gli abiti chiassosi, il sesso eccessivo.

Ma la storia?

Ci si chiede?

La storia è quella di due genitori che hanno rinunciato al loro figlio adottivo. Problematico, violento. O forse sono loro -artistici e mal assortiti- che non erano i genitori adatti a prendersene cura.

Si insultano, quindi, pur amandosi.

Si scontrano e si lasciano, si tradiscono pur rimanendo gelosi.

E Ema perde il controllo. O forse ce l’ha appieno.

A noi non resta che seguirla, tra una festa, un adescamento, un colloquio di lavoro. Con parti inaspettatamente leggere e comiche, con quelle coreografie che rendono bella anche una città decadente.

Il dubbio, nei tanti finali presenti, resta.

Un piccolo grande film in attesa di tornare ad Hollywood, o un grande film su una donna complessa?

Io continuo a rimuginarci.

The Laundromat – Steven Soderbergh

Diciamo la verità: quando il caso Panama Papers è esploso, non ci si è capito poi molto.
Diciamo la verità: come funzionano i tanti paradisi fiscali, in pochi lo sanno.
Ci pensa l'instancabile Soderbergh a fare chiarezza, a cercare di spiegare con leggerezza il tutto.
Il pensiero non può che andare ad Adam McKay, che già ha impartito ottime lezioni sulla crisi immobiliare in America e sul grande Vice Dick Cheney.
Lo stile infatti è quello: rendere pop e accessibile un mondo freddo e chiuso come quello della finanza.
Il leitmotiv è così una tragedia che colpisce Meryl Streep, classica pensionata in viaggio con marito, che rimane coinvolta in un incidente navale. L'assicurazione che tutti dovrebbe risarcire, si rivela uno dei tanti gusci vuoti che portano al nulla.
O per meglio dire, a Panama.
Mentre Meryl si reinventa detective, due gigioneggianti Antonio Banderas e Gary Oldman ci fanno da Cicerone illustrandoci segreti e dietro le quinte del loro mondo fatto di firme false, prestanome, occhi chiusi.  In cui anche un biliardario che non è un criminale, si rivela essere un padre e un marito tutt'altro che innocente. Si avanza così, abbattendo la quarta parete, strizzando l'occhio allo spettatore, creando storie e storielle parallele (dalla Cina a Las Vegas) capaci di abbassare il livello di difficoltà e rendere folto il cast (Sharon Stone, Matthias Schoenaerts, David Scwimmer, Jeffrey Wright, Will Forte...).
Ma diciamo la verità: Soderbergh non è McKay e qua e là le sue soluzioni, i suoi spiegoni, si fanno pesanti.
E se dobbiamo dirla tutta, questa verità, diciamo pure che l'innegabilmente brava Streep, è ancora una volta incasellata nel ruolo dell'arzilla vecchietta dalla doppia faccia. Con tic e movenze viste ormai troppo spesso da apparire più costruite che naturali.
Piccoli nei, comunque, in quella che si rivela essere una commedia intelligente e fortemente schierata, che arriva in un balzo ad un finale esaltante che è un chiaro e giustissimo messaggio politico. E questo, oltre ad aver assistito a un'ottima lezione di economia mondiale, basta.

 

The King - David Michôd

L’idea di partenza già non era delle migliori: condensare due classici di Shakespeare in uno.
Se poi ci mettiamo un cast che strizza l’occhio al glamour, abbiamo quel film storico di cui possiamo fare tranquillamente a meno.
O anche un fan service a Timothée Chalamet, dal fisico non certo da re, ma che cerca di stagliarsi sulla scena in primi piani intensi a renderlo sempre più antipatico e sopravvalutato ai miei occhi.
Ma andiamo con calma, lasciamo da parte i giudizi personali su di lui.
Che qui è Hal, figlio scapestrato e disconosciuto dal padre Enrico IV, che si ritrova suo malgrado ad essere re d’Inghilterra alla morte di questi e del fratello.
L’idea di un regno di pace, senza rispondere a minacce o provocazioni, dura poco. 
Si parte infatti contro la Francia, cercando di espugnarne il trono.
Inizia così la più classica delle campagne di guerra, con lunghi assedi, con piani ben studiati, con sangue, fango e onore al servizio del re.
Come se tutto questo non lo avessimo già visto altre volte, come se Shakespeare non si meritasse di meglio di richiami continui a Game of Thrones (in particolare alla Battle of the Bastards).
Non basta nemmeno un buffo e improbabile Robert Pattinson principe di Francia dall’accento improbabile, non basta una Lily-Rose Depp che alimenta il gossip, perché resta un film prevedibile nei suoi intrighi, nei suoi morti e nelle sue svolte, che poco aggiunge di nuovo al genere.
Vivrà della fama dei suoi protagonisti e della produzione Netflix, ma con i suoi dialoghi esagerati e la sua fotografia cupa, annoia al primo sguardo.

Barn (Beware of Children) - Dag Johan Haugerud

Cosa succede quando muore un bambino?
Quando quel bambino muore in circostanze particolari, ucciso per incidente (forse) da una sua amica?
Succede che tutto l'universo che attorno a lui ruotava, si ferma. E inizia a interrogarsi. A elaborare il lutto, a confrontarsi, ad analizzare quanto successo e cosa c'è da fare.
Il caso particolare in questione vede protagonisti i due alunni migliori di una rinomata scuola norvegese. Vede lei, figlia di un laburista, aver colpito lui, figlio di un esponente di estrema destra. Le implicazioni politiche hanno il loro peso, ma solo per gli adulti, fra insegnanti che trattavano con diversità, genitori fermi nelle loro posizioni e pure la preside che quell'esponente sta frequentando, restia alla neutralità. Non è solo di morte che si parla quindi, si parla di politica, di educazione, di senso di colpa e di responsabilità. Si parla di famiglia e di scuola soprattutto, del ruolo dei figli e di quello dei genitori.
Il tutto in 157 minuti che, credeteci davvero, non si sentono. Il merito è di una sceneggiatura precisa e calibrata, fatta di dialoghi densi, di lunghe scene in cui a muoversi sono le parole. Che vanno così a segno. Adulti e ragazzini si confrontano, e quasi ci si dimentica di chi non c'è più, quel morto che solo alla fine ci viene mostrato.
È una sorpresa che non ti aspetti dalla Norvegia, una sorpresa che in mezzo a tanta densità lascia spazio per risate improvvise, per uno humour caustico che spezza la tensione. Gli applausi sono garantiti.

Babyteeth - Shannon Murphy

Lui è un giovane senzatetto, dipendente dalle droghe, cacciato dalla famiglia. Vive di espedienti e si imbatte in lei.

Lei è giovanissima, figlia di uno psichiatra e di una psicolabile. Vivrà ancora per poco, il cancro la sta divorando e si imbatte in lui.

Scopre l'amore, quello che si vuole e si cerca disperatamente. 

Riscopre la vita, mettendo da parte la rabbia, la frustrazione per godere dello stare insieme. Che non è facile se i genitori si oppongono, se vedono una minaccia nella differenza di età, nello stile di vita dell'altro.

Ma, il bello, è che pure loro aprono gli occhi, vedono e vogliono la felicità per la figlia e in cambio di farmaci, convincono lui a stare da lei, da loro.

A completare il quadro: una vicina single e incinta, un insegnante di musica senza peli sulla lingua.

Insomma, un quadretto indie perfetto, in cui si alternano le risate per le situazioni assurde e comiche ai drammi della malattia, accompagnati ovviamente da buona musica, da quella fotografia di colori accesi, dagli interni studiatissimi.

E allora, com'è che l'emozione non è arrivata?

Com'è che nemmeno una lacrima è scesa nonostante il finale ad alto tasso di commozione?

Forse perché nonostante la divisione in capitoli dagli splendidi titoli, c'è un po' di confusione di troppo, ci sono personaggi che appaiono e scompaiono, ci sono tempi mal rispettati. In primis, quelli della malattia, che vedono Eliza Scanlen in forma e più viva che mai dall'inizio alla fine, a voler essere scrupolosi.

Con i drammi cercati e tirati, pur di inserire conflitti volti a riportare la pace.

Spiace quindi non essere più convinti, spiace per un Ben Mendelsohn adorabile, per una Scanlen solare, nonostante il connubio con i denti faccia pensare ad altro visto quanto succedeva in Sharp Objects.

L'apertura al genere malattia-movies da parte della Mostra è encomiabile, ma forse ci vuole qualcosa di più per chi lo frequenta da un po'.

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