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REVIEWSLE RECENSIONI
02/02/2023
Måneskin
Rush!
"Rush!" è il primo disco che i Maneskin si trovano a pubblicare dopo essere diventati un brand, un'azienda che fattura milioni, e il fallimento non era un’opzione. È quindi un disco a tante mani, dove non sono più loro quattro gli unici responsabili della scrittura e che, proprio per questo motivo, è un bel disco. Un disco Pop che li consacra una creatura mainstream, pienamente parte del sistema dell'industria musicale e che col Rock non c’entra proprio nulla di nulla.

Quasi due anni fa, recensendo Teatro d’ira – Vol. I, mi ero lasciato andare a riflessioni sullo stato attuale del Rock, sul suo non essere più né un genere trasgressivo né un tipo di musica destinata ad un pubblico giovanile. Oggi, che di anni ne sembrano passati venti, e che la visibilità dei Maneskin ha toccato vette che nessuno riteneva pensabili quando quel disco venne pubblicato, il discorso va impostato in tutt’altro modo.

Per come la vedo io, accostarsi al gruppo romano come ai “salvatori del Rock” o come a “finalmente un gruppo italiano che suona con veri strumenti e fa vera musica” non sarebbe solo fuorviante ma anche profondamente ridicolo.

Nel 2022 i Maneskin sono diventati un fenomeno mondiale. Traguardi come le aperture ai Rolling Stones o i 70mila spettatori del Circo Massimo scompaiono di fronte ai Grammy, al miliardo di visualizzazioni di “Beggin’”, ai 113 (centotredici) milioni di stream totalizzati dal singolo “The Loneliest” in tre mesi di presenza su Spotify, ad un tour mondiale che li ha visti presenti in tutti i festival più importanti del mondo, Coachella e Glastonbury compresi.

Quindi, di cosa parliamo quando parliamo dei Maneskin (chiedo scusa a Carver per il luogo comune)? Di una band che è ormai divenuta un brand e un’azienda, che fattura milioni e che dà lavoro ad un nutrito team di professionisti; una band, dunque, per cui la musica è prima di tutto un fattore economico, un qualcosa che non deve innanzitutto andare al cuore e all’anima delle persone ma che deve soprattutto “funzionare”.

 

Rush! è il primo disco che il gruppo si trova a pubblicare dopo essere arrivato a questo livello ed è ovvio che il fallimento non sarebbe stata un’opzione da contemplare. La conseguenza, l’ha già fatto notare Riccardo De Stefano nella sua ottima recensione su ExitWell, è che i quattro sono stati affiancati da molteplici team di autori, particolare facilmente verificabile dal fatto che i credit dei vari pezzi si traducono spesso in una lista interminabile di nomi. Niente di cui scandalizzarsi, oggi il Pop funziona così. Scrivere una canzone non ha sempre a che fare con l’ispirazione, col gesto assoluto che racchiude in sé il significato universale delle cose, ecc. Al contrario, il processo creativo può essere anche svolto a tavolino, soppesando le opportunità e selezionando le opzioni, avendo bene in mente quel che si vuole realizzare e a chi ci si vuole rivolgere.

Il Pop da classifica, in modo particolare, funziona così. Il pezzo deve “arrivare” e perché succeda questo deve rispondere a determinati requisiti. L’artista è colui che porta fisicamente la canzone, quello che la canta, che la rende visibile. Che dietro ci sia una squadra di gente che è pagata per scriverla e per renderla una hit, è ormai la cosa più normale del mondo e, attenzione, non sminuisce per niente il valore della musica nel suo senso più puro: semplicemente, si tratta di un’altra concezione della stessa.

Rush! è quindi un disco a tante mani, dove non sono più loro quattro gli unici responsabili della scrittura e che, proprio per questo motivo, è un bel disco. Sì, avete capito bene, Rush! mi è piaciuto. Non in maniera esagerata, certo, ma lo trovo un bel prodotto, con canzoni scritte molto bene (nella maggior parte dei casi almeno), prodotte altrettanto, canzoni con un gran tiro, con una sezione ritmica che spacca, con una cassa dritta che pompa, canzoni che quasi sempre azzeccano l’hook giusto, con melodie di tre note, trite e ritrite, che possiedono tuttavia un richiamo magnetico, che ti ritrovi a cantare e a batterci sopra Il piede prima ancora di decidere se ti piaccia o meno veramente. Beh ragazzi, il Pop è anche e soprattutto questo. E infatti Rush!, nel caso aveste dei dubbi, è un disco Pop che col Rock non c’entra proprio nulla di nulla.

 

I Maneskin “salvatori del Rock”? Posto che è sempre stata un’affermazione idiota, se non altro i primi due album a quella cosa lì ci assomigliavano, non si può dire che ne parlassero il linguaggio però almeno provavano a scimmiottarlo. Qui non ne hanno proprio la minima intenzione. Rush! è un disco che avrebbero potuto registrare indifferentemente Dua Lipa, Madonna, Beyoncé, i Killers, Britney Spears (se facesse ancora dischi), Miley Cyrus, Lady Gaga… ovviamente sto parlando di artisti dotati di una personalità spiccata, quindi ovviamente ciascuno avrebbe lasciato la sua impronta inconfondibile, si sarebbe imposto su certe scelte, avrebbe selezionato quella determinata canzone piuttosto che un’altra.

Il Pop industriale non è fatto in fotocopia, il nome sulla copertina del disco conta eccome, non fraintendetemi. Eppure, questo terzo lavoro dei Maneskin è un disco di Pop industriale che la casa discografica, tramite gli autori ingaggiati, avrebbe potuto preparare per chiunque. Poi è chiaro, stiamo parlando dei Maneskin, che hanno raggiunto il successo venendo associati alla parola “Rock” e dunque gliel’hanno in qualche modo cucito addosso: chitarre aggressive, ritmiche incalzanti, un certo grado di liberazione sfrenata dei ritornelli. Sì, c’è un vestito di quel tipo in queste canzoni, anche se ovviamente si tratta di un Rock levigato, ultra compresso, buono per un pubblico che non ha famigliarità neppure con le grandi band degli anni ’70, gente che ogni tanto, se va bene, si sintonizza su Virgin Radio. È un disco dei Maneskin e dunque un po’ a loro ci assomiglia ma in verità è un’altra cosa, se paragonato a ciò che la band aveva prodotto finora.

Proprio per questo, dicevo, mi è piaciuto. Nel loro essere standardizzati, i pezzi sono obiettivamente irresistibili, soprattutto quelli della prima parte della scaletta: “Own My Mind” col suo ritmo martellante è un’opener perfetta, “Gossip”, che già conoscevamo per il tanto chiacchierato feat di Tom Morello (che non incide più di tanto, sia detto) è tanto banale quanto indovinata, “Bla Bla Bla” è ruffiana e ammiccante in maniera quasi esagerata, “Baby Said” e “Timezone” sono due mazzate irresistibili.

Insomma, se in Teatro d’ira si aveva spesso l’impressione di essere di fronte ad una parodia, qui si va a pescare nel luogo comune e nell’ultra scontato, ma i risultati sono nonostante tutto positivi.

Qua e là sono presenti anche soluzioni non scontate e particolarmente interessanti: “Gasoline”, per esempio, ha una costruzione non del tutto lineare e un chorus che, seppur anthemico, mantiene un non so che di oscuro. Stessa cosa per “Kool Kids”, un mid tempo robusto che nelle strofe strizza gli occhi agli Idles e ad altre band di quell’area lì. Persino una ballata come “If Not For You” funziona bene, molto anni ’90 nell’intenzione, simile ad un modello utilizzato con successo da artisti come Aerosmith o Bon Jovi.

 

E i brani in italiano? Ecco, un altro dato interessante da registrare è che, finalmente, il gruppo ha trovato una propria omogeneità nella proposta e sembra avere deciso che tipo di musica voglia fare. Non è stata del tutto una loro decisione ma non importa, in questi casi conta il risultato. In un contesto di Pop a dimensione mainstream la lingua italiana rischia di ritrovarsi del tutto fuori posto per cui l’impressione è che sia stata usata per aggiungere una sorta di tocco esotico, per ricordare al pubblico da dove viene il gruppo e, cosa probabilissima, come sorta di tributo a quelli che dopotutto sono stati i primi loro fan.

Ci sono dunque tre pezzi in italiano, sistemati strategicamente in fondo alla corposa scaletta (17 canzoni per 52 minuti sono pur sempre un piatto impegnativo, nonostante la scorrevolezza) e risultano tutto sommato amalgamate nel contesto: “Mark Chapman” per chi scrive è la migliore, riff e strofe telefonatissime, per un testo che sembra riflettere sulle conseguenze della fama planetaria che da un giorno all’altro si sono ritrovati addosso. “La fine” gioca anch’essa sui cliché musicali, fonde le chitarre distorte ed un cantato prettamente Hip Hop come già fatto in abbondanza sul disco precedente ed è una poco credibile lamentela sull’essere famosi e apprezzati da milioni di persone. Mi sbaglierò, per carità, ma io ci vedo molta più posa che drammaticità, in questa ammissione che “se tutti quanti ora ti stanno amando, sappi che non è l’inizio, è la fine”. Hanno lavorato per questo, o forse no? E non sono forse l’esatto risultato di una politica del “branco”, nonostante in questo brano dicano che la salvezza è staccarsi da essa?

“Il dono della vita” invece è una ballata poco convincente, un mero filler come del resto è “Mammamia”, che è uscita come singolo nel 2021 e proprio non si capisce perché sia stata riproposta.

A chiudere arriva poi la già citata “The Loneliest”, un altro brano lento che a mio parere è un enorme buco nell’acqua, un episodio inutilmente pretenzioso, che vorrebbe giocarsela sull’intensità dei sentimenti di disagio e solitudine espressi ma che in realtà rappresenta l’unico passo falso di un songwriting che fino ad ora era stato vincente proprio nel suo maneggiare una materia esageratamente stereotipata.

 

Resta che Rush! è il disco che i Maneskin dovevano fare all’indomani del loro trionfale 2022, per consacrare il loro successo e, se possibile, spingersi ancora più in là.

Dureranno? Ce li ricorderemo come una luminosissima meteora, come oggi si ricordano gli One Direction? Impossibile e forse anche inutile prevederlo. Il punto è che oggi Damiano, Ethan, Veronica e Thomas sono una delle band di maggior successo del pianeta. È un successo che non hanno raggiunto grazie alla loro musica (che è sempre stata mediocre e anche adesso è poco significativa, dire che funziona e che è piacevole non significa dire che siamo sugli stessi livelli di The Weeknd o Dua Lipa, è proprio un altro campionato) bensì grazie alla loro presenza, al loro modo di stare sul palco. Che non significa sminuirne i meriti, attenzione: in questo ambito essere fighi e mangiarsi viva la folla sono qualità tutt’altro secondarie, chiedete a Mick Jagger o a Robert Plant.

Detto questo, i Maneskin non appartengono né all’Italia né tanto meno al Rock. Appartengono al sistema, sono una creatura del mainstream. Dureranno quel che dureranno e noi dovremmo provare a parlarne di meno, a non farne a tutti i costi un oggetto di furore ideologico, nel bene o nel male.