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REVIEWSLE RECENSIONI
02/10/2017
Caparezza
Prisoner 709
Si può soltanto immaginare quanto potesse essere difficile presentarsi con un nuovo album dopo "Museica", ancor di più correndo il rischio di presentarsi con un album prepotentemente introspettivo e viscerale nel senso più fisico del termine
di Emanuele Bertola

Anno 2017, Italia.

Il prigioniero 709 è evaso dal carcere in cui era rinchiuso da ormai 2 anni.

Il fuggitivo è di facile identificazione per via della sua enorme capigliatura riccia.

Durante il suo periodo di reclusione ha detto di chiamarsi in diversi modi: Michele, Salvemini, CapaRezza, a volte addirittura Mikimix, e passava il tempo a scrivere in maniera compulsiva.

Nella sua cella sono stati ritrovati gli originali di 16 testi che il ricercato sta diffondendo dal 15 settembre, data della sua evasione, preghiamo tutti di prestare la massima attenzione, leggere questi scritti, o peggio ancora ascoltare le canzoni, potrebbe svegliarvi dal torpore e danneggiare seriamente la vostra capacità di apprezzare il resto del panorama musicale italiano e non solo.

C'è voluto ancora una volta Michele Salvemini per risvegliare la scena mainstream italiana - ormai violentemente invasa da un'ondata di hip hop di bassissima lega composta da qualche vecchio leone che ha ceduto al sistema e un'orda di nuove leve più attente ai tatuaggi e al profilo instagram che alle parole con cui scalano le classifiche -, e per dare la giusta scossa ad una società ed un'industria musicale pesantemente dormienti, CapaRezza ha sfoderato la sua migliore opera, la più sofferta, la più vera e quella più vicina all'arte allo stato puro, quella che sa passare dal particolare all'universale. Si, perchè il particolare di partenza è un fischio incessante e martellante nell'orecchio del Capa, un male esteriore che si chiama Acufene, e che lo tormenta a tal punto da trasformarsi in un malessere interiore, in una cortina fumosa che impedisce di vedere chiaramente la figura riflessa nello specchio, e che CapaRezza trasforma in una prigione, la sua prigione, ma in fondo anche la prigione di chiunque sia incastrato in un ruolo, in un personaggio, in uno sterotipo o in una qualunque cella, reale o astratta.

Che l'artista pugliese avesse cominciato a sopportare poco il suo stesso personaggio era già stato evidente con il precedente album, lo splendido Museica, nel quale i palesi riferimenti politici ai quali eravamo abituati erano quasi completamente spariti (o per meglio dire si erano nascosti), per lasciare spazio ad un percorso artistico differente e più introspettivo, una scelta che gli era valsa il premio Tenco 2014 e che ritorna incredibilmente più decisa in Prisoner 709. I giochi di parole e le finezze iniziano già dal titolo, che merita decisamente una spiegazione: 709 - in inglese Seven O Nine - è l'emblema del dubbio iniziale, è l'album numero 7 o 9? E' il settimo a nome CapaRezza, ma se si contano i due album pubblicati come Mikimix il conteggio arriva a 9, inoltre "CapaRezza" ha 9 lettere, mentre "Mikimix" ne ha 7, e a pensarci bene "Michele" ne ha 7, mentre "Salvemini" ne ha 9. I due numeri rimbalzano in maniera ossessiva lungo tutto l'album, tra le due identità musicali con le quali CapaRezza deve fare i conti, ma anche all'interno dei testi, pieni zeppi di contrapposizioni tra parole di 7 e 9 lettere, e infine nel sottotitolo di ognuno dei 16 (7+9) brani dell'album, ognuno dei quali pone una domanda, una scelta tra una parola di 7 lettere e una di 9.

L'album si apre con Prosopagnosia (sottotitolo: Michele o Caparezza), un pezzo che ricorda qualcosa dei Rage Against the Machine meno violenti, con un ritmo costante che si appoggia sui bassi (fondamentale qui la presenza di John De Leo) e la voce che scandisce le parole con un incedere nevrotico. Bastano pochi secondi per essere proiettati in un'ambientazione decisamente oscura, una dimensione paranoica. La prosopagnosia in medicina è un disturbo del sistema nervoso che impedisce di riconoscere i volti, ma quando il volto che non si riconosce è il proprio, la crisi di identità è a un passo, e così mentre il ritornello risuona recitando "If you call my name I don’t recognize it. If I look at my face I don’t recognize it", CapaRezza vomita tutto quello che probabilmente fermentava nella sua mente da parecchio tempo, ne emerge una sorta di insofferenza verso la sua stessa maschera e soprattutto la consapevolezza di essere finito realmente in una prigione. Una frase su tutte: "Cantavo per fuggire dal mondo in un solo slancio, ora che cantare è il mio mondo ne sono ostaggio".

A questo punto le porte della cella si chiudono, e parte Prisoner 709 (Compact o Streaming), primo singolo estratto dall'album, qui siamo dalle parti del metal, senza se e senza ma, un macigno sonoro potentissimo che è impossibile ascoltare a volume basso e su cui, tra i cori inquietanti che ripetono "Seven O Nine", le parole del testo corrono velocissime raccontando un altro dualismo, quello tra musica solida e liquida, un dualismo che i millennials non potranno probabilmente capire, ma che diventa devastante per chi è "copia fisica, in custodia cautelare rigida o digipack". Una bomba, decisamente uno dei pezzi più riusciti dell'intero disco.

Si prosegue con La caduta di Atlante (Sopruso o Giustizia), e quando un artista riesce a scrivere un pezzo come questo, prendendo un mito della Grecia antica - la vicenda di Atlante e Dike - raccontando la storia dal punto di vista di Atlante e proiettandola su sè stesso, sul suo acufene e sul "giorno in cui mi cadde il mondo addosso", non c'è altro da fare se non alzarsi in piedi e applaudire. Ci sono più contenuti in una sola strofa di questa canzone che in buona parte dei dischi hip hop mainstream pubblicati quest'anno, e se cercate la politica, è in strofe come questo dialogo tra Atlante e Dike (la dea della Giustizia) che la troverete: "Ciao, mi chiamo Atlas - petto gonfio, anfora - Lascio ogni ragazza, con questo mio corpo, afona. E tu, sarai mia. Ti voglio addosso, canfora. Posso darti il mondo, il mondo, non la metafora! Disse: Non sono di nessuno, nemmeno di Ulisse, e sono chiara e ferma come le stelle più fisse. Usi la forza e la ricchezza per le tue conquiste? Non sei più forte ne più ricco sei solo più triste!".

Siamo alla quarta traccia, il prigioniero 709 si ritrova sul lettino dello psicologo, ed è il momento del primo ospite, o per meglio dire il primo compagno di cella, CapaRezza ha infatti voluto per la sua Forever Jung (Guarire o Ammalarsi) un personaggio d'eccezione: Darryl Matthews McDaniels, alias DMC, corpo e anima di quei RUN DMC che negli anni '80 hanno mosso un passo fondamentale per il percorso della musica rap, ed è proprio il rap, nel senso più puro del termine, il protagonista di Forever Jung, visto che "Il rap è psicoterapia", e quindi su una base decisamente old school il Nostro spiega in poco più di 4 minuti perchè "i veri padri del rap sono Freud e Jung", tra nomi altisonanti, frecciate nemmeno troppo velate alla scena rap moderna e colpi da maestro come "I veri padri del rap sono Freud e Jung / prima di dj Kool Herc e del folle boom / prima che la vecchia scuola ci abbia messo rime su / potere alla parola prima di Francesco di Gesù". La ciliegina sulla torta è ovviamente il riuscitissimo cammeo di DMC, che tira fuori un flow pazzesco come solo lui sa fare.

Poi è la volta di Confusianesimo (Ragione o Religione), e - anche se in modo differente - viene fuori il Capa che tutti abbiamo imparato a conoscere, quello di Il mio sogno eretico, che non risparmia i colpi verso le religioni costituite. Stavolta però non aspettatevi un'invettiva, anzi, una lucida analisi su quello che le religioni propongono e quello che noi stessi andiamo cercando nelle religioni. Lungo il testo CapaRezza sembra cercare la propria, quella che gli dia il conforto, ma dopo averle provate tutte conclude che "C’è una scienza dietro le religioni, il testo epico, l’impianto scenico, nuove barriere, nuove prigioni, non mi immedesimo, confusianesimo."

Si passa per Il testo che avrei voluto scrivere (Romanzo o Biografia), la paranoia ritorna, accompagnata da chitarre niente male, e travestita da ossessiva ricerca del testo perfetto, quello che "tocchi la vetta del Kilimangiaro, non di Spotify", che accontenti pubblico e critica, "così introspettivo che ne vedi le viscere, che chi lo sente capisce me, che faccia di me quasi un viceré, come Richelieu", e come in Prisoner 709 è evidente la critica al mercato musicale moderno, ai suoi meccanismi, all’avida  fame di nuovo e di qualcosa di necessariamente sempre meglio.

La chiave (aprirsi o chiudersi) vale da sola l'intero album, un pezzo talmente vero che colpisce dritto al cuore, qui l'artista torna indietro nel tempo ad incoraggiare un sè stesso giovane e insicuro, che si fa scudo dal mondo con un sorriso forzato e si sente impotente, ma "Non è vero che non sei capace, che non c'è una chiave". Un CapaRezza così poetico non si era mai sentito, e non si può che restare piacevolmente sorpresi nel sentirlo pronunciare una strofa meravigliosa come: "Potessi abbattere lo schermo degli anni ti donerei l'inconsistenza dello scherno degli altri".

Nel percorso che porta dalla prigionia alla catarsi siamo ad un punto cruciale, La chiave dà lo slancio per il pezzo successivo, Ti fa stare bene (Frivolo o Impegnato), un brano con sonorità allegre e vicine ad un funky d'annata, che non a caso è stato scelto come secondo singolo in contrapposizione con la pesantissima Prisoner 709, un'aura scanzonata che camuffa un testo tutt'altro che frivolo, ma risuona come una boccata d'aria (o meglio un'ora d'aria) e mostra il desiderio di respirare aria nuova, di non farsi ingabbiare di nuovo dai giudizi e dalle pretese degli altri, l'importante è stare bene, e se "questo pezzo è un po' troppo da radio, sticazzi! Finchè mi fa stare bene".

Con la successiva Migliora la tua memoria con un click (Ricorda o Dimentica) si viene fiondati dal passato al futuro, accompagnati lungo il ritornello dal secondo compagno di cella: Max Gazzè. Il testo è una lettera al CapaRezza vecchio e con problemi di memoria, un file da poter aprire come un vecchio album di fotografie per non dimenticare come eravamo, e se è concesso leggere tra le righe il messaggio in codice è "non rinnegare di essere stato Mikimix, se non lo fossi stato oggi non saresti CapaRezza".

Come in ogni psicanalisi che si rispetti, il punto di svolta, il passo fondamentale, è rappresentato dall'accettazione, ed è a questo punto che interviene Larsen (Perdono o Punizione). Il riferimento è ovviamente all'effetto Larsen, ovvero il fastidioso fischio generato dagli altoparlanti quando si avvicina troppo un microfono, è l'acufene che ritorna prepotentemente, ma questa volta, dopo mille tentativi di ogni tipo, CapaRezza diventa conscio del fatto che "Quando arriva Larsen te lo devi tenere".

Preso atto della resistenza delle sbarre di questa prigione, ci vorrebbe una rivoluzione, una rivolta dei carcerati, e chi meglio di lui potrebbe guidarla? Invece con Sogno di potere (Servire o Comandare) CapaRezza ribadisce di non voler essere la bandiera di nessuna rivoluzione, di voler essere soltanto sè stesso e di sognare soltanto di potere andare via da tutto ciò.

Vorrà anche andare via, ma - quando parte L'uomo che premette (Innocuo o Criminale) - è proprio quel CapaRezza militante che sembrava praticamente scomparso a fare capolino su un riff di chitarra centratissimo, di colpo ci ritroviamo di nuovo immersi in quella critica feroce e tagliente che lo caratterizza e che lo fa odiare dal popolino e dall'esercito di banalizzatori da social. Sono proprio loro il bersaglio del brano, gli abusatori delle premesse, i prìncipi del luogo comune, insomma, tutta quella schiera di Quelli che benpensano, bravissimi a dichiarare "premetto che sono l'uomo che premette, premetto che sono l'uomo che premette, premetto che sono l'uomo che premette IL GRILLETTO!".

Fin qui l'ascolto è un oscillare costante tra sollievo e tortura, tra rivoluzione e prigionia, tra paura e coraggio, e così, proprio quando la testa riccia che tutti conosciamo sembra rispuntare fuori come nella copertina di Hot Rats, ecco che i carcerieri lo trascinano per i piedi e gli infliggono una nuova tortura, forse la più devastante, breve ma tremendamente oscura: Minimoog (Graffio o Cicatrice) è 1 minuto è 45 secondi di puro terrore, decisamente il brano più difficile da digerire, soffocante come il più riuscito dei thriller. Un crudele saluto, l'ultimo sadico regalo della prigione sottoforma di cicatrice prima dell'evasione.

Ora, dopo l'ultimo regalino, il prigioniero è pronto alla fuga, e sulle note di L’infinto (Persone o Programmi) volge lo sguardo oltre le sbarre, o per essere più precisi "oltre quella siepe", con gli occhi fissi verso la libertà sembra domandarsi se il mondo fuori sia reale oppure no, troppo digitale per chi è alla ricerca di emozioni analogiche, tanto virtuale da far dimenticare la realtà, e se "solo accettando la finzione noi ritroveremo l'umanità", c'è una sola cosa da fare mentre ci si cala lentamente con le lenzuola annodate: ripetersi incessantemente che "io sono finto, l’universo è finto ed è meglio finto, è più bello finto, è più vero finto. Io nel pensier mi fingo".

Siamo all'atto conclusivo, i cancelli della prigione sembrano ormai lontani mentre, sul ritmo vagamente rilassante di Autoipnotica (Fuggire o Ritornare), CapaRezza getta la targhetta con il numero 709 dal finestrino e osserva la strada dietro di sè che si sfalda attraverso lo specchietto retrovisore, e si rende conto di non poter più tornare indietro, che comunque la prigione sarà sempre presente, ma la strada di fronte è lunga, è fatta di musica, e CapaRezza ha ancora un'incredibile voglia di percorrerla.

A chiusura del disco arriva la conclusiva Prosopagno Sia! (Libertà o Prigionia), interamente strumentale se non fosse per il ritornello ripreso dalla opening track ripetuto come una litania. La voce del prigioniero non c'è più, la cella è vuota, ma - come nei migliori film - la storia non finisce con i titoli di coda, ed una ghost track fatta di feedback sempre più fastidiosi lo dimostra, se si ha la pazienza di attendere qualche minuto. Il prigioniero è libero? Lo è davvero? Lo è definitivamente? Ai posteri l'ardua sentenza.

Si può soltanto immaginare quanto potesse essere difficile presentarsi con un nuovo album dopo "Museica", ancor di più correndo il rischio di presentarsi con un album prepotentemente introspettivo e viscerale nel senso più fisico del termine, eppure ancora una volta CapaRezza riesce a stupire con un album che alza di nuovo l'asticella della qualità, dualistico dalla prima all'ultima nota, che riesce ad essere legato al passato e proiettato al futuro, coerente e incoerente allo stesso tempo, tanto complesso da necessitare di un'esegesi eppure violentemente diretto, un'opera fisica in un mondo liquido, 16 brani da ascoltare con i testi di fronte in un universo di lettori mp3, tipicamente CapaRezziano per attitudine nella sua ricchezza di giochi di parole, sottili ironie e riferimenti culturali che attraversano migliaia di anni di storia e i più disparati argomenti, ma anche e soprattutto umano, emotivamente coinvolgente tanto che più che un album sembra un romanzo di formazione. In questo album c'è davvero tutto: il malessere, la sofferenza, la caduta e la rinascita, la coscienza che riaffiora e infine la catarsi, c'è Michele, c'è CapaRezza e c'è persino Mikimix, ci sono i miti greci e c'è Leopardi, c'è Goethe e - a pensarci bene - pure Pirandello. Non citato in un brano, non richiamato tra le rime, ma nell'essenza dell'intero album: Prisoner 709 è uno - CapaRezza -, nessuno - un prigioniero qualunque - e centomila - le emozioni che colpiscono nel profondo all'ascolto. Resta come unico rammarico la consapevolezza che la generazione che forse avrebbe più bisogno di comprenderlo (forse addirittura studiarlo a scuola) avrà non poche difficoltà, disabutuata com'è alla complessità, ad afferrare un disco di così alta caratura. Semplicemente un capolavoro.