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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
01/09/2021
Marcus Miller
“Suona la tua musica potente come una pantera… graziosa come un uccellino, giovane uomo!” Sono le parole che si sentì rivolgere Marcus Miller durante una passeggiata nel parco da un vecchio signore. Il virtuoso bassista americano non si è mai discostato da questo consiglio, come il pregevole M² dimostra.

Per innalzare Marcus Miller nell’Olimpo dei migliori artisti basterebbe il lavoro con Miles Davis in Tutu, un album rivoluzionario, ricco di sfumature e intrecci che necessiterebbero di un intero libro per essere completamente svelati e approfonditi nel dettaglio.

Comunque il buon Miller, nativo di Brooklyn, ha sempre avuto la musica nel sangue nel vero senso della parola, con il padre William organista oltre che direttore di coro e il cugino Wynton Kelly celebre pianista e compositore jazz. Lo studio e l’approccio classico gli hanno consentito di lavorare per anni come rinomato session man e la voglia di contaminare ogni esperienza accorpando più generi lo ha reso molto originale, con uno stile inconfondibile: accanto a una stupefacente brillantezza tecnica abbiamo un’impetuosa carica emotiva, una notevole vena compositiva e un travolgente senso ritmico.

Troviamo tutto questo in , che compie vent’anni proprio in questi giorni e rappresenta bene l’ecletticità di questo formidabile bassista che non perde occasione per far notare con quanti strumenti si sappia inoltre divinamente cimentare, suonandoli nelle varie tracce. La sua maestria nel surriscaldare l’atmosfera pure con un tocco di clarinetto basso è proverbiale, alimentata dalla scelta del marchio Buffet, una garanzia per le incursioni e svisate tipicamente jazz a cui Marcus ci ha abituato. Ed è altrettanto strabiliante ascoltarlo ai sassofoni, Wurlitzer piano, chitarre, percussioni, financo a synth, vocoder, scratches e drum programming. Ovviamente ci sono anche parecchi ospiti e ottimi musicisti ad accompagnarlo, ma la produzione non può che essere in suo potere.

Il progetto di Miller è a largo raggio e verte al futuro. E qui ci ricolleghiamo a Tutu: l’ambizione del musicista americano è sempre stata quella di confezionare un disco che risentisse fortemente dell’epoca in cui è stato concepito, ma che guardasse in ugual modo all’avvenire, lasciandosi ascoltare anche parecchi lustri dopo. Si può affermare con certezza che il progetto con Miles Davis abbia centrato l’obiettivo e si appresta a coronare tale sogno pure questo lavoro che, per varietà e ricerca sonora d’avanguardia, fatica a essere catalogato in uno spazio temporale.

Il “trittico” di inizio, ad esempio, è piacevolmente devastante. Fusion, funk, R&B, jazz e rock si rincorrono e si incastrano con Power, Lonnie’s Lament e Boomerang. La prima e la terza composizione sono autografe, piene di groove e ben annaffiate, udite udite, anche da cello, viola e violino grazie rispettivamente ai giocosi Larry Corbett, Matthew Funes e Joel Derouin. In più Boomerang è uno dei pochi brani che prevede pure la parte vocale, con Raphael Saadiq e lo stesso Miller protagonisti.

Lonnie’s Lament arriva invece dal repertorio dell’immenso John Coltrane. Scritta nel 1964, inaugura il periodo in cui il famoso sassofonista stava sviluppando un suono al passo con i tempi, cercava un nuovo stile e tutto questo si ricollega all’”ansia di prestazione” da parte di Marcus di cui si discettava prima, il desiderio di colpire e lasciare un’impronta per i posteri che passa appunto dallo studio di moderne forme d’espressione. Il tocco di Branford Marsalis al sax soprano rende questo rifacimento molto originale, ulteriormente impreziosito dai colpi di spazzola dell’inimitabile Lenny White.

Anche la scelta di interpretare un classico di Charles Mingus, la sontuosa Goodbye Pork Pie Hat si rivela indovinata, specie per la presenza di Herbie Hancock al piano, del quale non esistono aggettivi per descrivere il suo intervento, una vera cascata di note in un fiume di emozioni.

Il livello del lavoro è molto alto, senza cadute di tono, ma se esiste un motivo che davvero fa la differenza è la cover strumentale di Burning Down the House dei Talking Heads, una potente sciabolata che colpisce al cuore, un’intrigante rilettura in chiave “funky fusion” di uno dei gruppi più d’avanguardia che siano mai esistiti. La cosa altrettanto intrigante è che non esista un numero di ascolti che possa chiudere definitivamente l’analisi di questa canzone. Dalla chitarra ritmica suonata dal padrone di casa e ammiccante a Cocaine, ai lead del compianto Hiram Bullock (un’istituzione della sei corde jazz, con collaborazioni fra le più disparate, si vedano ad esempio Paul Simon, i Blues Brothers e Sting) al solo di alto sax dell’immarcescibile Kenny Garrett, troviamo gli ingredienti per creare una torta ricca di farciture con archi e fiati a decorarla deliziosamente. E la ciliegina è l’arrembante basso che penetra e anima una canzone che fa parte del repertorio di molti validi live acts -non si può dimenticare la resa favolosa della Dave Matthews Band-, ma che in questo contesto vive di nuova luce.

Sly and the Family Stone, Parliament e Earth, Wind & Fire sono tra i miei gruppi preferiti.”

L’influenza di queste band traspare in tutta l’opera, si sente molto nella composizione di It’s Me Again (dedicata alla moglie Brenda), guidata da una tempesta di percussioni dei Maestri Vinnie Colaiuta & Mino Cinelu e nell’architettura sonora di Cousin John, arricchita da un musicista veramente speciale. Infatti l’immenso Wayne Shorter va a fondo e torna a galla con il sassofono soprano, dandoci una lezione di musica a più dimensioni, a più livelli, grazie al suo inconfondibile tocco. Miller, dal canto suo, non ha eguali con il proprio Fender bass: giganteggia dando un groove pazzesco, aggiungendo pure una spolverata di clavinet e divertendosi con il talking bass synth.

Se questo disco si è aggiudicato il Grammy Award come miglior album di jazz contemporaneo lo dobbiamo poi ancora a due perle. Red Baron di Billy Cobham è frizzante per merito di Fred Wesley e Maceo Parker, vibranti come non mai al trombone e alto sax, mentre Your Amazing Grace è tutta una sorpresa. Si tratta di un nuovo brano influenzato dalla nota canzone popolare Amazing Grace e la scelta della voce di Chaka Khan regala un’atmosfera soul gospel, alimentata dal clarinetto di Miller. Si sfiorano gli otto minuti ed è molto intrigante la struttura del pezzo, a tratti dal ritmo simil sincopato, che accorpa smooth jazz a un pizzico di R&B ed è una continua rincorsa alla ricerca del mood più carezzevole. Naturalmente l’obiettivo viene raggiunto e il contributo di Kenny Garrett, sì, ancora lui, è decisivo. Così i guizzi di sassofono di Garrett chiudono un’opera interamente dedicata, come si evince dalle note di copertina, a un grande virtuoso di tale strumento, l’epico Grover Washington Jr, uno dei padri proprio dello smooth jazz di cui si è appena parlato,   scomparso nel periodo in cui si iniziavano le registrazioni di .

In chiusura bisogna ricordare che l’attività in studio di musicisti eccelsi come Marcus Miller è semplicemente la degna cornice di quella live, assolutamente imprescindibile. Vi sono numerose pubblicazioni, anche su DVD, che testimoniano quanto quest’incredibile talento sia un animale da palcoscenico, ma niente sarà più come prima se avrete la possibilità di vederlo in carne e ossa.

“A volte penso che un certo aspetto del brano sia molto importante, ma quando poi vedo la risposta della gente capisco che non lo è poi così tanto, e viceversa.”

Spesso si crede che l’artista sia indifferente alle sensazioni del pubblico: ecco una dichiarazione che fa comprendere quanto invece sia parte integrante della rappresentazione dal vivo, momento unico e solenne!


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