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REVIEWSLE RECENSIONI
24/11/2017
Morrissey
Low In High School
In tempi di artate complessità e sterili sottigliezze costruite sulle autostrade del nulla cosmico (sociale, politico e intellettuale), Morrissey va contromano e gioca a fare, di proposito, il “populista” querulo, schierandosi frontalmente contro il gregge belante e zelante degli irriducibili petalosi che non hanno capito. O hanno fatto finta di non capire.

Più che il nuovo album di Morrissey, attendevo con trepidazione le reazioni/recensioni della critica, tricolore o d’oltreconfine; la quale, naturalmente, ha dato il “meglio” di sé anche questa volta, accogliendo, con la provinciale boria e la mediocrità connaturata ai tempi che corrono, Low In High School come l’ennesimo borborigmo di un vecchio zio bigotto sopraffatto dalla senilità che spara flatulenze a destra e a manca.

Questo, in estrema (ma nemmeno troppo estrema) sintesi, il “pensiero” dell’élite; quella italiana, in aggiunta, si è resa oltremodo ridicola piccandosi pure per l’episodio accaduto a Roma con la polizia capitolina (e no, mi dispiace, “Who Will Protect Us From The Police” parla d’altro); non mi dilungherò oltre: la lunga lista delle “colpe” di Morrissey la potete recuperare su tutti i principali siti di “informazione” presenti sul web e sulle pagine personali “social” dei paladini al caviale del politically correct. Quello che, però, mi lascia perplesso è questo: le decine e decine di recensioni che ho letto sono tutte uguali, esprimono tutte gli stessi identici concetti, a volte anche con le stesse parole, quasi avessero risposto a una chiamata, a un ordine.  Ecco, quando ci troviamo di fronte a quella cosa che si chiama “unanimità”, dovremmo tutti un po’ inquietarci e un po’ spaventarci. “Mangiate merda, ecc.”, avete presente?

Ciò premesso, mettetevi il cuore in pace: Low In High School è il miglior disco/risposta (e il miglior disco di Morrissey da Ringleader Of The Tormentors, A.D. 2006) che l’outsider mancuniano potesse partorire nell’epoca della “dittatura del buonumore”[1], che ripudia l’onestà intellettuale, che adorna coi virginei veli dell’accoglienza le purulente piaghe del nuovo schiavismo, che ha in spregio qualsiasi forma di identità, che finge ipocritamente di non sapere che cosa accade nei camerini di Hollywood o di Cinecittà o anche, più prosaicamente, negli uffici e nei luoghi di lavoro; che pretende di ergersi a Verità Assoluta, a Giustizia Incontrovertibile, che distrugge e (rin)nega la Storia, le lingue, le culture: un bulldozer (o un panzer…) invasato e schizofrenico che sta radendo al suolo l’Umanità in nome dell’Umanitarismo. Chi non si allinea è un traditore e va fucilato. Vi ricorda qualcosa?

Morrissey è un traditore, un infedele. Morrissey indispone, non si allinea. Morrissey va fucilato. Ed ecco allora che l’élite emette la fatwa: prescrive e ordina il rituale purificatore della damnatio memoriae, necessario per tutti i personaggi pubblici (in special modo gli artisti) che rifiutano scientemente di essere cooptati. Dai roghi delle streghe ai lager, dall’Inquisizione ai gulag, fino al moderno “ghetto semantico”, un leprosario socio-psicologico (non-luogo subliminale dove vengono deportati i dissidenti autentici, non quelli di facciata funzionali al Potere) costruito dalla neolingua buonista, le nostre tecniche di eliminazione del diverso si sono fatte sempre più potenti e invincibili. Almeno in questo, ci siamo evoluti.

Se esiste un messaggio univoco (e cruciale?) nelle canzoni di Morrissey – a partire già da “Hand In Glove”, primo singolo degli Smiths risalente al 1983 – non può che essere questo: “Sii te stesso, chiunque tu sia”, ovvero lo zenit della ribellione, la bestia nera dei babbei omologati: l’individualismo.

Il  “peccato originale” di Morrissey è quello di essere, sempre e da sempre, nient’altro che se stesso, di non cavalcare nessuna onda, di non sottomettersi ai dogmi ideologici (né left-right-wing: per chi non lo avesse ancora capito, egli le considera due facce della stessa medaglia), di non accontentarsi del “meno peggio” e – eccola, la colpa suprema, imperdonabile, scandalizzatrice – di dire esattamente quello che pensa (e che spesso pensiamo tutti senza ammetterlo pubblicamente) senza maschere, senza ipocrisie edulcoranti, senza vessilli di parte. E in Low In High School non fa che ribadire questo messaggio: sii te stesso.  Il prezzo da pagare sarà altissimo: dileggio, esclusione, solitudine, emarginazione. Ma sii te stesso.

(A proposito di “cattivi maestri”: se i sedicenti critici si fossero presi la briga di scalfire un minimo la loro apatica superficialità, leggendo almeno i crediti dell’album – pratica che fino a qualche anno fa era d’obbligo, essendo il packaging parte concettuale integrante delle opere degli Smiths prima e di Morrissey poi -, il loro sguardo avrebbe incontrato questo: “This recording is dedicated to Dick Gregory (1932-2017)” e, appena sotto, “deathless, deathless, deathless”; un vero reazionario di destra, Dick Gregory, certo, certo…).

“Teach your kids to recognize and to despise all the propaganda

Filtered down by the dead echelons mainstream media

You know me well, my love, I’d do anything for you

Society’s hell, you need me just like I need you”

È questo l’incipit del brano che apre vigorosamente l’album, “My Love, I’d Do Anything For You”, innervato di fiati anthemici, chitarre che profumano di glam e un drive di batteria robusto ed elegante; ciò che, insomma, difettava nel precedente World Peace Is None Of Your Business (2014), dove la ricerca dell’immediatezza melodica stemperava la verve di composizioni non sempre solide. Da questa prospettiva, Low In High School è meno immediato ma, nel contempo, assai più incisivo del suo predecessore, e, anzi, risulta a tratti articolato e complesso (forse anche troppo, in taluni momenti: vedi la pretenziosa invettiva contro la guerra – sacra? – “I Bury The Living”, che supera i sette minuti) grazie al lavoro del fido e coraggioso Boz Boorer sugli arrangiamenti e alla produzione, come nel precedente lavoro, di Joe Chiccarelli, entrambi evidentemente ispirati ad avventurarsi verso nuove sonorità e soluzioni. Paradigmatica, in questo senso, la conclusiva “Israel”, imponente e densa ballata epica, così come il primo, velenoso singolo, “Spent The Day In Bed”, ingannevole divertissement pop in cui Gustavo Manzur introduce giocosamente alla tastiera l’irresistibile shuffle prodotto dalle pelli di Matt Walker (tutto assai distante dal muscoloso rock chitarristico).

Emerge – rispetto all’usuale – un deciso uso dell’elettronica (la già citata, straniante “Who Will Protect Us From The Police?”; il quasi synth-pop della sferzante “I Wish You Lonely”) che tuttavia non è mai prevaricante o invasivo, e Morrissey sforna prestazioni cui non eravamo più abituati da anni (addirittura il falsetto…) con quella naturalezza che forse mancava a World Peace Is None Of Your Business: valga d’esempio della classicissima “Home Is A Question Mark”, uno degli apici del disco assieme a “Jacky’s Only Happy When She’s Up On Stage”, che molti hanno voluto leggere come allegoria della “Brexit” ma che a me pare essere più attinente all’attentato di Manchester del 22 maggio 2017, con quel suo ominoso sfondo di sintetizzatori.

Naturalmente tra le canzoni maggiormente incensate dall’élite c’è “All The Young People Must Fall In Love” che, chissà per quali grotteschi ragionamenti (non spiegatemeli, grazie, non li voglio sapere), viene accostata alla lennoniana “Give Peace A Chance”; va detto che sì, qualcosa le accomuna: il fatto di essere due canzoni liricamente mediocri e musicalmente abominevoli.

Ricco di piccoli lampi che si palesano ascolto dopo ascolto, Low In High School è l’album più apertamente “politico” (cito la felice, pungente intuizione di un amico carissimo, nonché collega di Loudd: “Questo Morrissey mi pare il miglior album politico di Marc Almond”)  della discografia di Moz e uno dei più contraddittori, con accenni alla Primavera araba (la toccante ballata pianistica “In Your Lap”) e attacchi agli Stati Uniti da prospettive singolari (la pseudo-cabarettistica e plumbea “The Girl From Tel-Aviv Who Wouldn’t Kneel”, il cui titolo trae ispirazione da Il diario di Etty Hillesum, scrittrice olandese di origine ebraica vittima della Shoah), accanto a canzoni pro Israele (la già citata “Israel”).

In tempi di artate complessità e sterili sottigliezze costruite sulle autostrade del nulla cosmico (sociale, politico e intellettuale), Morrissey va contromano e gioca a fare, di proposito, il “populista” querulo, schierandosi frontalmente contro il gregge belante e zelante degli irriducibili petalosi che non hanno capito. O hanno fatto finta di non capire.

Spent the day in bed / very happy I did, yes

 

[1] Alain Deneault, La Mediocrazia, (Neri Pozza, pp. 239); ve ne consiglio caldamente la lettura.