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REVIEWSLE RECENSIONI
09/03/2018
Hot Water Music
Light It Up
Un disco di facile ascolto, ma di alta qualità. Un ritorno all’autoproduzione per un confronto con se stessi. Un risultato coerente ed onesto. Gli Hot Water Music sono tornati e Light It Up è pronto ad occupare almeno 35 minuti delle vostre vite. Se come un piacevole ascolto o come qualcosa di più, a voi la scelta.

I quattro ragazzotti di Gainesville sono tornati e, a cinque anni dal precedente Exister, si presentano al pubblico con il nuovo Light It Up. L’album è l’ottavo della loro discografia e il secondo interamente autoprodotto.

Preso il nome da una raccolta di racconti di Charles Bukowski (in Italia edita con il nome di Musica per Organi Caldi, per chi ne fosse incuriosito), gli Hot Water Music si formano nel 1994 e debuttano nel 1995 con il loro primo album, Finding the Rhythms, seguito l’anno successivo da Fuel for the Hate Game. Dal terzo album in poi è stato un susseguirsi di litigi e scioglimenti fino al 2006, dove la rottura sembrava definitiva. Nel 2008 tornano insieme e nel 2012 portano alla luce Exister. Dopo tante vicissitudini interne e più di vent’anni alle spalle di carriera, cos’altro portare alla luce? Una sottile ed elegante auto-riflessione sul loro stile, onesta, coerente e libera da schemi, che regala un suono già classico in salsa americana, con cui si ripresentano al pubblico consci del percorso fatto fino ad oggi, pronti a regalare un nuovo pezzetto di sé.

Le similitudini con alcune delle sonorità dei Bad Religion sono inequivocabili: “Complicated” e “Light it Up”, che aprono l’album, ne sono un ottimo esempio e quest’ultima, oltre ad essere la title track, è anche la canzone più veloce delle 12, se non dei loro ultimi album.

La voce di Chuck Ragan è più roca che mai e fa pensare ad uno strano ibrido tra un Tim Armstrong dei Rancid in versione grunge-rock e Bruce Springsteen. Di rock, infatti, se ne respira molto in diverse soluzioni sonore (basti pensare a certi passaggi di “Never Going Back”, “Rabbit Key” o “High Class Catastrophe”, giusto per citarne alcune), anche se, dopo la bella ed oscura “Sympathizer”, ci sono chicche come “Vultures”, in cui il ritmo torna ad incalzare e gli anthem si fanno sentire. I sing-along, infatti, non mancano: i cori di “Show Your Face” ne sono un buon esempio, assieme alla positiva “Bury Your Idols”, che ricorda la necessità di seguire sempre i propri sogni, senza idolatrare eccessivamente qualcuno che ci ha preceduto.

 

L’album scorre liscio e omogeneo, accelera con moderazione e leggerezza e si rivela adattabile a mood e climi diversi, sia atmosferici sia emotivi. Magari non sarà l’album della vita, ma lo si ascolta e riascolta volentieri, che lo si faccia distrattamente o che lo si segua con attenzione. Si dimostra ad ogni ascolto un buon prodotto, mai banale, che può soddisfare su livelli differenti sia i fan sia gli ascoltatori casuali.

E poi sono solo 35 minuti, se la compagnia è buona, perché non premere di nuovo play?