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REVIEWSLE RECENSIONI
11/01/2023
Broomdogs
Hole On The Surface
Un puro piacere, una maestria che è rara e una scrittura riuscita, che si fonde al gusto degli arrangiamenti e alla vera capacità di essere un multistrumentista e saper esprimere con mezzi diversi un unico inequivocabile messaggio, sbocciato da una reazione istintiva ed umana. A voi l'ultimo disco di Broomdogs.

Vi sto per parlare di una delle cose che più mi ha sorpreso con il suo primissimo ascolto e lasciato con una trepidante voglia di approfondirne la conoscenza, ascoltarlo e poter farlo mio. Un brevissimo approccio iniziale, forse di trenta-quaranta secondi, tanto è bastato per mettermi in stand by e farmi ricordare quella sensazione anche nei giorni seguenti, ancora così vivida nonostante i tanti ripassi di altri innumerevoli dischi da cui è stato superato, per curare il contemporaneo rituale della classifica di disco dell’anno.

Sto parlando di Broomdogs, progetto del talentuoso Pier Ballarin, ex The R’s, autentico multistrumentista col dono della composizione, della penna e del buon gusto.

Il suono e le belle soluzioni armoniche trovano un unico punto d’incontro, incontestabile e gradevole, nelle frequenze di questo Hole on the surface, LP di otto tracce dove regna la calma, ma anche l’energia e freschezza di veder condensato un messaggio mai banale, quanto piuttosto avvolgente e positivo, dove le parole spuntano da una sorta di buco del respiro, una bolla d’aria da cui emerge una risposta istintiva di chi reagisce attivamente alla vita che scorre e che pare talvolta non curarsi del suo effetto su di noi. Un po’ come chi ci passa accanto e continua per la sua strada, non curandosi di averci strappato i lembi dei vestiti. Ho percepito una presa di posizione, resa positiva dal sapore armonico e sonoro delle canzoni.

 

C’è tanta America. O comunque tanta di quell’Inghilterra che guarda agli Unites States, al country beatlesiano, mettiamola così. Succede nell’opening track “Czar”, col suo tempo posato che le fa strizzare l’occhio in maniera sottile ad una sorta di “Coffee & tv” leggermente più trattenuta, ma con delle armonizzazioni di basso che si spostano con maestria nell’armonia ricercata e non per questo ostica all’ascolto. Questo grazie a delle melodie vocali lunghe che accompagnano quel “Leave it all behind”, con cui il ritornello saluta e battezza la risoluzione della canzone, prima che una chitarra fuzz prenda con gusto le redini del momento.

Accelera lievemente il passo la successiva “Walking around in chains”, dove il messaggio di aiuto affidato alle parole (“There aint no cure for a silent distruction ‘till it looks ok”) sprigiona la sua natura possibilista e di speranza in una musica che non cade nell’inganno di seguire il significato intimo e riflessivo, ma si colora di freschezza ritmica e armonica. Gli arrangiamenti sono sopra le righe e stavolta mi colpisce un fill batteristico a cui è affidato un cruciale momento a metà canzone.

Ed è ancora la batteria a stupire attraverso l’intro della successiva “Mind/Valley”, molto Beck-iana: fresca, pimpante e ricca, con la sensazione costante di star ricevendo qualcosa di accurato e pensato.

Poi parte “Over the fence” e si prende lo scettro in un attimo. Non so ancora di cosa, sta di fatto che il ritmo finalmente posato e largo mi dispone al meglio al messaggio, mi mette al centro dei giochi e non posso che cominciare a notare la peculiarità degli arrangiamenti, del sincopato sulla grancassa che tiene il pezzo vivo, del delay su questo suono ferroso che incita a stare incollati. I vuoti diventano i momenti più pieni del disco. Davvero una sensazione gratificante. Belle le melodie, belli i suoni, mai lasciati da soli ma sempre accompagnati da una forza che li rende autonomi anche nei particolari più impercettibili. Granitici i cori dei ritornelli, ben arrangiati ed eseguiti.

“Paintings”, traccia numero cinque del disco, prende le sembianze di uno slow country e chiude perfettamente il trittico delle ispirazioni legate a Beck senza per questo odorare di citazione.
Anzi, il tema affidato alle due chitarre distanti forse un paio di ottave non fa che donare originalità e bellezza al momento. Il fraseggio, se non ci pace chiamarlo solo, che viene dopo il ritornello, affidato alla solita chitarra del tema nel versante del registro più basso, è davvero ottimamente suonata, ma non è soltanto questo. È il trascinamento che esso contiene, la cura dell’esserci con tutto se stessi, non gettare via niente, partendo didascalicamente dalla propria presenza.

Il trittico è passato ed è stato un momento di culmine di un disco che ancora mi stupisce e fatica a trasmettermi qualcosa di stancante o comunque poco comunicativo. Siamo dentro un gran bell’album.

 

“Husk” è una sorta di prova del nove, momento cruciale di un castello di carte che pare indistruttibile. Ed ecco infatti, a conferma delle buone sensazioni avute finora, che emergono per la prima volta in maniera evidente, dopo un brevissimo accenno appena percepibile nella precedente, i sintetizzatori e il loro apporto sonoro. Il momento è giusto e la scelta forse provvidenziale anche perché la scrittura è quella stessa piacevole e già apprezzata nelle prime due tracce di presentazione. Stavolta emerge qualcosa di più sognante che mi ricorda per qualche strano motivo il fiabesco che è uscito nel secondo disco dei The Good, the Bad & the Queen, che tanto mi è piaciuto ma che mai mi sarei aspettato.

“Perfect hands” è una canzone leggermente più sostenuta, più nei modi che nella sostanza, e torna a parlare una lingua già percorsa sia in questo disco che da qualche illustre maestro. L’ispirazione c’è sempre e nessun brutto scherzo ci viene giocato. Sembra una scrittura di chi abbia masticato a dovere il mondo di Lennon e di McCartney fino a filtrarlo in un contenitore palesemente anni Novanta. Il risultato è molto positivo.

“WYMO” comincia e capisco subito che sarà un grosso centro. Non mi sbaglio anche se di tutto il disco è sicuramente quella che prende le sembianze più dirette del già citato Beck. Niente da obiettare, assolutamente, ma è giusto farlo presente, così come voglio sottolineare quel colore imprevisto e sottilmente grunge che spunta dal niente per merito della parte alta dei cori che accompagnano gran parte del brano.

 

Eccoci alla fine. Qualcuno diceva che “tutto è già stato scritto”, lo ricordo spesso. In quel senso, direi che forse c’è stato solo un piccolo abuso dell’ispirazione, riferendosi ai tanti riferimenti illustri, cosa che ha reso questa parola rimbalzante nei miei pensieri durante tutto l’ascolto. È anche vero che si tratta di un disco veramente ispirato nella scrittura, nell’arrangiamento e nel concepimento sonoro, aspetto che mi fa ritrovare la stessa parola nuovamente al centro, ma con un’accezione chiaramente positiva.

Un puro piacere, una maestria che è rara e una scrittura riuscita, che si fonde al gusto degli arrangiamenti e alla vera capacità di essere un multistrumentista e saper esprimere con mezzi diversi un unico inequivocabile messaggio, sbocciato da una reazione istintiva ed umana.