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REVIEWSLE RECENSIONI
01/03/2018
Suuns
Felt
Con “Felt” i Suuns dimostrano di non avere intenzione di abbandonare il loro tratto sperimentale. Un disco di qualità elevatissima per un suono così innovativo da rendere impossibile ogni termine di paragone.

Il bello di suonare certa musica è che nessuno riesce ad accomunarti a nessun altro. Certo, dentro il filone della musica de-strutturata ci può stare chiunque con qualsiasi cosa che non abbia né capo né coda. Il punto è proprio questo: abituarsi a superare la forma-canzone, pratica a cui ci hanno allenato diversi artisti - gli ultimi Radiohead in primis - apre un universo di cose che noi, che troviamo sicurezza nelle successioni regolari, non possiamo nemmeno immaginare.
Ci sarà però un modo per definire i Suuns. Il loro rock astratto (ecco, i è venuto in mente il modo: immaginate una versione rock dei Clouddead) ci ha lasciato completamente senza orientamento sin dal primissimo assalto di “Zeroes QC” e si è propagato con la stessa qualità e un inalterato approccio pionieristico alla scomposizione ritmico-armonica fino al nuovissimo “Felt”.
Ed è riduttivo bollare semplicemente il quartetto dei Suuns, segretamente canadesi tanto quanto l’etichetta Secretly Canadian che li pubblica, come una band che esce dagli schemi perché il loro suono gli schemi proprio non se li fila nemmeno di striscio. Mi riferisco a cose come il non-pattern di batteria e il non-riff di “Look No Further”, la traccia con cui si apre il disco e che mette in discussione il concetto stesso di “usabilità” musicale. I Suuns prendono i pezzi e li sbriciolano. Da qui ne deriva un’esperienza d’ascolto che comporta l’identico impegno di immergersi nella realtà aumentata, chiusi in un visore di panorami artificiali mentre fuori la tua incolumità è a rischio perché le cose rimangono della stessa consistenza di prima e, quanto ti urtano, fanno male.
In “X-Alt” addirittura una chitarra psychobilly interagisce con un solo free di sax e una drum machine transgender, tra techno e loop dimezzato. Nella spettacolare “Watch you, watch me” il sospiro di sollievo dura nemmeno il tempo di una linea di synth perché la voce filtrata ci riporta dritti nell’iperspazio dei Suuns e verso quella specie di solo finale con sotto i bicordi di chitarra in saturazione che vorremmo non terminasse mai, e con i suoi cinque minuti e rotti quasi ci riesce.
Anche “Baseline” dura un botto, e con lei il suo scazzatissimo funkettino arricchito da sequenze e altre diavolerie elettroniche. “After the fall” fa girare la testa con quel rumore a vortice che va da destra e sinistra mentre tutto, dentro, cammina al rallentatore fino a fermarsi nel chiacchiericcio di sottofondo del brano successivo, “Control”. Possiamo quindi sacrificare la traccia 7, “Make it real”, a un generico paragone con la band di Thom Yorke ma giusto il tempo della canzone perchè poi, con la frenetica “Daydream”, i Suuns ci tengono a marcare il loro territorio in cui, a quanto ci risulti, non hanno problemi a contendersi il necessario per il sostentamento con altri. Troviamo finalmente un barlume di semplicità con “Peace and love” ma è solo un preludio per l’apoteosi finale, il caos noise industrial di “Moonbeams” e la notwistiana “Materials” che ci lascia riflettere con il ronzio nelle orecchie per tutto quello che si è susseguito e ci ha condotto fin lì.

I Suuns sono i veri sperimentatori senza compromessi ma con un linguaggio pensato per comunicare e non fine a se stesso. Distruggono ma non lasciano macerie in giro perché riciclano tutto per ricostruire nuovi modelli di ascolto. Non si prestano ad assopire la nostra curiosità ma ci inducono ad aspettare l’alba con gli occhi spalancati per vedere sorgere qualcosa di diverso sul mondo che prepotentemente con “Felt” hanno fatto a pezzi mescolando elettronica, rock e tante altre cose a cui potremo dare un nome ma solo in futuro.