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REVIEWSLE RECENSIONI
09/11/2022
The Soft Moon
Exister
Sesta uscita per il Californiano Luis Vasquez, quinta sotto le vesti del suo progetto The Soft Moon. Il suo agile spaziare nei territori dark e industrial trova con quest’ultimo Exister l’ennesima felice realizzazione anche se sembra mancare qualcosa di pienamente accogliente ed immersivo.

L’agile spaziare di Luis Vasquez alias The Soft Moon nei territori dark e industrial trova con quest’ultimo Exister l’ennesima felice realizzazione anche se sembra mancare qualcosa di pienamente accogliente ed immersivo. I bassi plettrati e annegati nel chorus, vero marchio di fabbrica strumentale delle sue musiche (e soprattutto delle sue visuali performance live) prendono ancora in mano l’album e spostano la freccia del “decenniometro” (pardon) prepotentemente sugli anni ottanta, incattivendo i sottofondi ritmici con delle batterie acide e prive di alcun filtro, addolcendo però il risultato finale con quell’eccesso di immancabile reverbero sulle parti vocali tanto da riuscire ancora a tenerci inchiodati chissà come in quel territorio controverso ed estremo.

L’iniziale “Sad Song è soltanto una pillola divagatoria di suoni lunghi, un volontario appannaggio che strizzando un occhio all’ambient e forse più direttamente a quella “Cycle” che apre meravigliosamente Morning Phase di Beck. Ci dirotta in un territorio per poi farci pregustare ancora di più lo schiaffo che ci arriverà con la successiva “Answers” e con tutto il resto del disco.

La sola “Monsters”, col suo passo lento e cadenzato, prova alla sua maniera a farci fermare e riflettere, rispetto ai bit tirati ed ossessivi che sono emersi in questo inizio di disco grazie a “Become the Lies” e “Face is Gone”. Ma, complice l’ambientazione sonora costante, il cambiamento è appena palpabile ed evapora in un istante. Siamo venuti fuori da un club dove regna il caos per prendere una boccata d’aria e il suono che stordisce dentro la fa comunque da padrone e sovrasta le nostre chiacchere esterne.

C’è tanto Reznor, tanti Nine Inch Nails di The Fragile, soprattutto nel rapporto tra la violenza delle basi e il ruolo della voce. Così come emerge spesso nell’altro lato della luna, quel colore inconfondibile che lascia l’eco delle note alte di Simon Le Bon.

Paradossalmente “The Pit”, techno pura, essendo strumentale cambia le carte in tavola più del previsto e regala una sorta di respiro al disco che finirebbe altrimenti col soffocare in se stesso. Tutto bello, tutto ben fatto. Ma nessuna particolare ispirazione ed emozione, se non l’esigenza di trovarsi a sentirli dal vivo per godere pienamente di quest’energia, che sotto forma di album riesce a farmi sentire addirittura fuori luogo.

“NADA” ci riporta nel sudore di un club del 1981, o comunque fa intuire come debba essere stato esserci ed è un bel trip. La lenta melodia ci conquista con quel “Can you say I’m nothing? I’m nothing” e quella continua ripetizione dell’ultima parola domandata che prende le improvvise sembianze della risposta stessa, non fa che intontirci. Un punto alto.

“Stupid Child”, rapida strumentale e caotica come un turbinio di incidenti e lamiere, apre la strada alla collaborazione con fish narc nella successiva “Him”, sicuramente un altro punto messo al disco, anche solo per il cambio di vesti espressive, ma che alle lunghe mostra la debolezza di una scrittura ai limiti del necessario. Ci sono canzoni che si muovono su due semitoni consecutivi per tutto il pezzo, penso a “White Rabbit”, dove quella pochezza diventa un valore aggiunto. Non succede qui, dove attendo continuamente qualcosa che mi prenda, finché la canzone non termina. Un attimo prima della mia buona volontà.

Succede invece nella successiva “Unforgiven”, stavolta basata su un accordo anziché due, e sulla felice collaborazione con Alli Logout della band postpunk Special Interest. La fusione è curiosa e le urla, gli esperimenti, le melodie, sposano la natura caotica dell’album intero, portandolo forse ad un picco massimo.

Parte “Exister” e, com’era successo per l’iniziale “Sad Song”, ho un sussulto: le corde vibrano senza incertezze in questi sviluppi armonici ed ambientali privi di ritmo e voci. Le composizioni che scrive Luis Vasquez hanno una completezza che quella carica di esagerazione della totalità dei brani non toccano. Ne toccano altre, sicuro, ma senza avere quell’ispirazione che invece c’è negli estremi strumentali dell’album, oltre che in “Forgiven”, collaborazione ben riuscita e punto più alto ed ispirato di un disco che sembra più il terreno di preparazione a dei live divertenti e memorabili, piuttosto che un disco fatto per vivere sulle proprie gambe.