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REVIEWSLE RECENSIONI
06/02/2020
Nicolas Godin
Concrete And Glass
L’imperatore d’Austria aveva un metodo infallibile per giudicare le opere a cui assisteva: lo sbadiglio. Uno sbadiglio e l’opera avrebbe avuto più di una replica, con due sbadigli si calavano drasticamente le rappresentazioni, al terzo l’opera avrebbe avuto ben poche possibilità di essere vista anche a breve termine.

Così farò io nell’approcciarmi ai giudizi; i primi sei brani del nuovo disco di Nicolas Godin, ad esempio, mi hanno portato pericolosamente vicino al terzo sbadiglio, se non fosse stato per l’evocativa “We Forgot Love”, bel pezzo intenso in quota Massive Attack che pare atterrato quasi per caso sui solchi del disco.

Lontani i tempi degli Air, di cui il nostro ne era il chitarrista, lontano quel 1998 e quel Moon Safari che stupì il mondo intero per la sua leggiadra bellezza. Difficile ripeterne le gesta, specialmente se quel disco ha tirato fuori degli epigoni che non andavano al di là di un paio di note loffie giuste per un vernissage modaiolo tutto apparenza e poca sostanza. Ecco, la partenza di “Concrete and Glass” è sconfortante anzichenò, la nota predominante è un pop che se ne va verso i lidi di un chill-out innocuo facendomi rischiare la vita; questo non vi meravigli dacché i miei ascolti avvengono per la maggior parte in auto e a forza di sbadigliare corro il rischio concreto di raddrizzare una curva. Non vi sembri una cosa facile riuscire a comporre musica da aperitivi ed alcove, qui ci fermiamo allo spritz, per il dopo spritz difficilmente la musica di Godin servirà all’uopo, siamo ben lontani da una Love Unlimited Orchestra e dall’atmosfera che riusciva a creare. Non riesco ad immaginarmi il musicista francese come un novello Barry White declamante parole d’amore, disteso su di un triclinio, nudo e sudato, coperto di solo asciugamano con le odalische a fargli vento con un ventaglio di piume di struzzo, no, no.

Però, arrivato al sesto brano e con la voglia concreta di passare oltre, ecco che arriva la zampata di Godin, che memore dei fasti passati, con gli ultimi quattro pezzi riesce a raddrizzare il disco e soprattutto non mi manda a muro.

Un po’ poco, direte voi, però in tempi di magra bisogna accontentarsi anche dello stretto necessario. Per dire, “Catch Yourself” con alla voce Alexis Taylor ci porta indietro fino agli anni ‘80 con quel suo mix di pop virato in soul, mentre “The Border” è puro pop elettronico d’ambiente con l’aggiunta del vocoder.

Musica d’ambiente che ritorna in pompa magna con la successiva “Turn Right, Turn Left” un tappeto orchestrale servito su una melodia eterea e sognante, come una colonna sonora da film retro futurista ambientato negli anni sessanta del secolo scorso. Il finale è affidato a “Cité Radieuse” unico tentativo di lasciare in un cantuccio melodia e ritmo, ma comunque sempre con l’intenzione di non appesantire l’ascolto, come se un Pierre Schaeffer avesse inventato la musica concreta per sonorizzare i vernissage d’arte con annesso aperitivo e una piccola sorpresa finale, nell’ultimo minuto del brano, di un sax che entra improvviso e che suona ruffiano che più ruffiano non si può.

Album ispirato dagli studi di architettura dello stesso Godin, non rispecchia quello che oggi l’architettura ci regala: semmai accadesse il contrario, ovvero che gli architetti ascoltassero questo disco forse servirebbe loro per progettare non più mastodontici catafalchi ma edifici meno ridondanti e più rispettosi di quel che vedono intorno. Pio desiderio questo.


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