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REVIEWSLE RECENSIONI
12/02/2018
Emenél
Border Diary
Lo so, è brutto metterlo a tema però non si può neanche nasconderlo: “Border Diary” è uno di quei dischi in cui la differenza con ciò che esce all’estero proprio non si vede. Ce la possiamo giocare ad armi pari...

Parlare esplicitamente di musica italiana in confronto o in contrapposizione al panorama internazionale rischia ogni volta di riproporre il problema dell’inferiorità della nostra tradizione rispetto al resto del mondo. Sarebbe ora di smetterla con questo tema ma la verità è che quando esce un disco valido dalle nostre parti, la frase è sempre quella: “Questo prodotto non ha nulla da invidiare a quello che c’è all’estero!”. Il che, diciamolo chiaramente, è già sintomo del fatto che di questo complesso d’inferiorità non ci libereremo proprio mai.

Meglio dunque parlare di questo disco di Emenél senza nessun tipo di ragionamento a monte e ammettere che siamo davanti ad un esordio davvero convincente. Moreno Turi, metà salentino metà torinese, è una vecchia conoscenza del nostro panorama musicale. Probabilmente il nome non dirà nulla ai più ma non stiamo senza dubbio parlando dell’ultimo arrivato. Il suo curriculum è lungo, dalle collaborazioni con gli Africa Unite alla presenza fissa negli Aretuska, la band che accompagna Roy Paci dal vivo. A titolo personale, terminata nel 2012 l’esperienza negli Steela, ha iniziato quella dei The Sweet Life Society, torinesi, dei quali fa ancora parte e con cui sarà nuovamente in tour tra poco.

“Border Diary” è comunque a suo modo un esordio, visto che si tratta del primo disco che ha composto e registrato da solo. Una sorta di diario di confine, come dice il titolo, che va a condensare in poco meno di 40 minuti un viaggio lungo anni, passato dai palchi di tutta Italia a quelli più prestigiosi sul suolo europeo.

Ed è un disco dove Moreno unisce con sapienza ed equilibrio la figura del songwriter con quella del producer, dosando le due componenti in modo tale che nessuna prevalga sull’altra e ne venga fuori un lavoro omogeneo, a dispetto delle numerose influenze incorporate.

C’è il Reggae, che è un po’ il suo habitat naturale ma c’è anche tanta Black Music, tanto RnB e molta elettronica, che rappresenta per questo lavoro molto più di un tessuto di sottofondo e plasma le canzoni al punto tale che, come ha dichiarato lui stesso in una recente intervista, “è musica che può avere i suoni di Berlino e le intenzioni di un pezzo giamaicano.”.

Il Groove è preponderante sin dall’accoppiata iniziale “Leaves”/“Km”, differenti nell’idioma utilizzato (inglese la prima, italiano la seconda) ma simili nel loro appoggiarsi a Beat spezzati, nel vivere di un’atmosfera scura ma allo stesso tempo coinvolgente, con i ritornelli che riescono a colpire nel segno.

Sono due canzoni che parlano di strade, di viaggi, di rincorse, con la seconda che tratta fugacemente il tema dell’immigrazione e la prima che vuole essere una sorta di presentazione iniziale, una dedica a quella musica che è “come uno zaino che ti porti sulle spalle”, sempre per citare le parole sue.

Ci sono dei featuring, che vanno ad impreziosire la proposta del disco e spostano leggermente la direzione dei pezzi in cui sono utilizzati: è il caso di “Stelle sporche” e di “N.O.I.”, che incorporano un bel pezzo di Hip Pop grazie alla presenza di due nomi emergenti della scena come Victor Kwality e Trevor. Giulietta, già assieme a Turi nei Sweet Life Society, offre invece una prestazione maiuscola su “Who I Am”, bellissimo brano Pop dall’andamento deciso e con un ottimo pattern elettronico.

I due brani strumentali “Nord” e “Train Train” sono invece sorprendenti non solo per le atmosfere create ma anche perché si incastrano alla perfezione all’interno delle altre tracce che sembrano solo apparentemente parlare un linguaggio diverso. Da questo punto di vista, il progetto Emenél potrebbe presto affiancare gente come Lorenzo Senni, Alessandro Cortini o Bloody Beetrots tra le cose più interessanti della nostra elettronica. E non poteva mancare una rilettura di “Man’s World”, che rispetto all’originale di James Brown diventa più cupa, meno esplosiva e costantemente in tensione, perfetta fotografia dell’anima di questo disco.

Dagli Almamegretta all’ultimo disco di Cosmo, la strada che fonde i suoni digitali con le varie declinazioni della tradizione italica si arricchisce ora di un altro capitolo che in futuro potrebbe divenire molto significativo.

Lo so, è brutto metterlo a tema però non si può neanche nasconderlo: “Border Diary” è uno di quei dischi in cui la differenza con ciò che esce all’estero proprio non si vede. Ce la possiamo giocare ad armi pari e forse, se tutti i nostri artisti avessero questo coraggio e questa ampiezza di vedute, in futuro potremmo davvero smetterla di distinguere tra “musica italiana” e “musica straniera”.