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REVIEWSLE RECENSIONI
All Born Screaming
St. Vincent
2024  (Virgin Music Group)
IL DISCO DELLA SETTIMANA INDIE ROCK ALTERNATIVE
8,5/10
all REVIEWS
29/04/2024
St. Vincent
All Born Screaming
L'incantevole e talentuosa St. Vincent pubblica "All Born Screaming" e noi lo andiamo ad analizzare (nel suo complesso e traccia per traccia) con il nostro produttore di riferimento. Come lo leggerà un orecchio esperto? Venite a scoprirlo.

Se penso a una figura colossale, di creatività esemplare degli ultimi vent'anni, penso a St. Vincent prima di chiunque altro. È indubbio che questa possa essere considerata una valutazione del tutto personale. Eppure stiamo parlando di un’artista che lascia la sicurezza di poterne parlare in maniera certa in quanto a risultati e sacralità. Aldilà del genere, della tecnica, c’è lei, la sua mente e la sua inventiva, coadiuvata dai giusti incontri artistici che l’hanno traghettata in quelle frequenze che ogni volta riescono sempre a sapere di qualcosa di nuovo, fino a oggi.

E poi sapete che penso? Che anche i membri restanti dei Nirvana una decina di anni fa, quando in occasione della propria introduzione nella Rock & Roll Hall of Fame decisero di farsi affiancare da qualche voce con cui colmare l’assenza di Kurt scelsero LEI, per cantare "Lithium", e fu qualcosa di incredibilmente spiazzante ma giusto, radicato nel presente almeno quanto lo furono i Nirvana nell’ultimo decennio del ventesimo secolo.

 

St. Vincent, che di nome fa Annie Clarke, classe 1982, esce con il suo All Born Screaming, nuovo lavoro dopo l’ultimo intimo Daddy’s Home, e riesce a tenere l’asticella dell’aspettativa a un livello impensabile. Sarà che qualcosa era cambiato nell’ultimo disco e quella ricerca di sentimenti familiari l’aveva ammorbidita nelle sonorità, sarà che per la prima volta è unica produttrice di un proprio disco, sta di fatto che prima ancora di iniziare l'ascolto mi immagino un ritorno alle origini, ai fasti del 2014 e del suo omonimo successo, e vedo un disco in cui si osa pur di arrivare al proprio schietto messaggio. E perché no, forse mi immagino anche un paio di punti appena più bassi, viziati da quell’insistenza dell'essere per la prima volta del tutto in mano propria che possiamo solo perdonarle. Queste le uniche previsioni che mi permetto prima di rischiare davvero di scivolare nella sciocchezza.

 

"Hell is near" comincia con dei fusti di timpani in un contesto indefinito tra vero e falso, tra suono fake o acustico. Il dosaggio di reverbero, di distorsione microscopica ma portante e di ambiente mettono di fronte all’attesa della voce di lei, che entra in scena prendendosi immediatamente lo scettro: bella la pasta vocale, l’espressività, la qualità sonora, il posto nello spettro sonoro, ma non esistevano dubbi. La successiva entrata di basso, batteria ed effetti tastieristici si sistema al posto giusto. C’è groove nel basso, parti scritte bene, forse una leggera prevalenza di sapori fake, dovuti magari all’eccessivo volume delle tastiere. Bella l’armonia ed è un piacere.

Un basso ipnotico crea un ulteriore scalino scendendo appena verso il basso e aumentando l’attenzione su di sè, accompagnato da suoni cordosi e metallici che spostano l’atmosfera verso l’India. Il ritornello torna nel groove in maniera liscia e appena insapore; la coda, sintetica e maestosa spinge nella maestosità del momento, forse appena forzata dagli strumenti che tecnicamente compongono la canzone più che dai sapori che restano addosso. Un grande mestiere più che un’ispirazione imperdibile, ma c’è del bello, e più continua più che ne percepisco la grandezza; le onde sonore fanno il resto e la maestria armonica e sonora collimano in un unico punto di arrivo che si stampa nel nostro sorriso finale.

 

"Reckless" esce dalle nubi di pad tastieristici per lasciare l'ascoltatore negli echi di un piano appena scordato e stavolta la spinta emotiva non si fa desiderare: sia il suono del piano sia quello del relativo e successivo basso sono talmente portanti da tenere inchiodati. L’entrata sintetica degli arrangiamenti che si creano sotto la seconda strofa sembra ottimamente ancorata come ispirazione e punto di arrivo. Due minuti e mezzo stanno in piedi grazie a questa corda tesa.

Il centro artistico compiuto di questa prima parte si scontra immediatamente con il cambio sonoro che accompagna verso la coda, responsabilità di un suono batteristico sintetizzato di cui viene enfatizzata l’epicità con una compressione incontrollata mischiata a un continuo senso di prossima distorsione in agguato. Il marchio si stringe intorno a ispirazioni anni Ottanta e a tutto quel mondo che ne è conseguito, legandosi con un filo invisibile all’arpeggio, che scandisce il ritmo di questo finale.

Il suono di Cian Riordan, ingegnere del suono che ha curato il missaggio del disco, fa sentire la sua mano pur non incontrando il mio stesso percorso di emozioni; c’è qualcosa di troppo, di pacchianamente esagerato, tanto da sorpassare la bellezza della scrittura e degli arrangiamenti stessi. Chiaro, sempre che non vogliamo considerare il mix un tassello fondamentale dell’arrangiamento; ma lo è, specialmente in un disco autoprodotto, quindi fa parte del messaggio quanto la scrittura.

 

Tocca quindi a "Broken Man", brano già uscito in video come apripista al nuovo disco. La fusione tra scrittura e sonorità in questo caso tocca la perfezione. Il mondo elettronico che comincia il brano trova una giusta esplosione con la successiva entrata strumentale di corde e fusti veri, batteria, bassi sporchi e saturi con chitarre annegate nel fuzz.

Avete presente In Utero? Steve Albini, Cobain, Grohl, Novoselic, il marcio. Se mi dovessi immaginare quel team di lavoro proiettato nel 2024, non oserei immaginarmelo in maniera migliore. La scrittura e l’arrangiamento sono al loro livello costante e questo connubio crea un momento che si piazza all'apice di quest’ascolto. Di quest’anno. È l’evoluzione di ciò che sappiamo ma che volevamo sentircelo dire con una voce differente.

 

"Flea" è una canzone puntellata di arrangiamenti sottili stretti vicino a dei fusti che non si vergognano a mostrarsi nel vestito che indosseranno di lì a poco, nell’esplosione che è dietro l’angolo. Bass synth, chitarra arpeggiata in maniera cruda. L’avevo origliata in un post nella sua pagina Instagram e la cosa mi aveva catturato. Dalla sala di regia, con una musica debordante in corso, si capisce che la nostra Annie si sta emozionando di qualcosa: si inquadra in sala di ripresa e c’è un batterista, dieci secondi di ripresa, Annie doma l’emozione quanto basta da far terminare la coda dell’ultimo piatto, entra nell’altra stanza e vomita un “Fuckin’… FUCK YEAH!” A chi? A Dave Grohl, giust’appunto, ospite d’onore di questo album.

"Flea", che è la canzone e non il bassista, mantiene le aspettative, sposando quanto sperato dal sottoscritto nel riportarci nei fasti del disco St.Vincent. Anche troppo: siamo di nuovo in quel disco. Il ritornello colorato dalla voce distorta e sovraincisa tiene il passo e lascia fluttuare in questo spazio senza respiro. Fuck yeah.

Comincia a starmi stretta questa eccessiva necessità di saturare il mix o il master, fatto sta che non ci è dato di respirare aria limpida. L’aria che respiriamo è sporca, contaminata, e la cura nel disco è talmente tanta che il messaggio non può essere che questo.

 

"Big Time Nothing" ha il passo delle grandi canzoni trip hop, con un basso moog arpeggiato in sedicesimi che gioca ancora con la saturazione fissa più che (come classicamente ci si aspetterebbe) con l’apertura e chiusura dei filtri.  La parola gioco mi è uscita non a caso. Il ritmo del basso macigno si interrompe e gioca ad andare a finire in un territorio altrui, disco funk, con una chitarra che sembra presa in prestito da Nile Rodgers. La schizofrenia la fa da padrona e sembra prendersi gioco di noi, o almeno di me e del mio cieco abbandonarsi alle frequenze iniziali. Perché a quel basso ci si abbandona, si chiudono gli occhi e ci si regala, per non meno di otto, dieci minuti. Se sul più bello si finisce nel groove del funk, per quattro battute e poi boom, di nuovo nel trip… mi sento al centro di una burla. Questo capitolo si esaurisce in neanche tre minuti, per l’appunto di altissimo livello musicale. E non so cosa pensare.

Ci pensa "Violent Times", con un intro di fiati che getta in quel mondo che Annie e David Byrne ci avevano lasciato assaporare nella loro memorabile collaborazione. È da subito evidente, non appena la voce prende le redini del brano, che ci si trova di fronte a un punto miracolato. Una malinconia che sta fra il dramma di una melodia cadenzata in quelle emozionanti frequenze vocali e il portamento ritmico costante e ripetuto senza troppi fronzoli che non può far altro che lasciare il compito dinamico a tutto il resto, perché tocca a lui stare lì fermo, campionato e stretto nei suoi picchi scritti. Penso a qualcosa dei Muse con quelle loro tipiche melodie falsettate e a "You Know My Name" di Chris Cornell per degli aspetti armonici. La canzone ha il sapore delle cose grandi e riuscite ed è un punto altissimo, senza dubbio. Poi se ne va il falsetto, esce anche il basso puntato, escono i fiati gravi e pungenti, fino a far restare da solo quel loop di batteria, fino a mostrarcelo nudo, senza vergogna.

È ancora un loop di batteria sintetica a presentarsi, quasi citando quella sincope che ha reso unica la canzone "Five Years" di Bowie. C’è poca roba in questa canzone: il suddetto ritmo, melodia vocale, un tappeto di chitarre miagolanti e suonate con l’e-bow, l’organo a dilatare quel momento che prendendo definitivamente forma si presenta come il ritornello. Con la seconda strofa si uniscono le basse, fondamentali per aiutare la canzone a crescere e prendere una propria forma. Arriva il ritornello e il basso, vero, si distorce. "The Power’s Out" non taglia il disco in due con la sua unicità, ma sta al passo con gli altri episodi.

 

"Sweetest Fruit" è simpatica e ritmata, ponendosi tra le più interessanti del disco. È fresca, viva, grazie anche a quel piccolo suono stonato che ci trasporta nella ragnatela e finisce innegabilmente sul podio per diversi motivi. Belle chitarre, con quella voglia di strapparti la maglia che ti trasmettevano le corde di Cobain, melodie che sono artigli, immancabili le due voci armonizzate e fatte suonare in uno stile che possiamo definire di St. Vincent: voce lead e su registro intermedio piuttosto pulita ma duplicata un certo numero di volte fino a sentirla muovere come un fantasma. La parte alta, l’armonizzazione dell’ottava superiore, è invece molto effettata ed esasperata nel suo muoversi, tanto da far sembrare normale la prima voce di cui prima. L’effetto è il suo marchio di fabbrica.  "Sweetest Fruit" riesce forse meglio di qualunque altra canzone a mettere nero su bianco la presenza di un equilibrio "nuovo", inventato da chi suona davvero e insieme.

"So Many Planets" comincia ricordandoci in qualche maniera l’inizio di "Hush" dei Deep Purple, salvo staccare il tempo e finire in un territorio reggaeggiante, ma senza perdere per questo alcuna eleganza o credibilità, cosa a cui contribuisce il momento top del ritornello. Accordi e melodia vocale si piantano delicatamente in testa e stavolta il suono sembra aver trovato una propria quadra, se non altro nella mia testa. Il basso dub (e sì, ancora sottilmente saturo) riesce con maestria a tenere in piedi il momento, regalando dei passi rilassati e abbandonati; e che cosa esiste di meglio, per uno scambio di sensazioni tra frequenze e corpi?

 

Questo album ha vinto. Mi ha preso, deluso, convinto e riaccettato con sé. E comincio a intuire il perché di questa necessità di impolverare la pulizia sonora con una sottile distorsione della realtà; il punto di vista apparentemente distaccato ma comunque vittima dell’aria che si respira. Tutti.

Tocca alla title track "All Born Screaming" chiudere il disco e curiosamente lo fa tenendo per mano questo momento caraibico soltanto sfiorato nel penultimo episodio che chiama in casa i The Police, o gli UB40. Il basso fretless e privo di tasti non fa che rendere più riecheggianti i suoi fraseggi ricordandoci della grandezza di Sting nel prendere Jaco Pastorius e farne un proprio stile pop, con cui poter avere ancora oggi possibilità di dialogo nell’ascolto. 

Se per un paio di momenti si procede in questa leggera e insistente malinconia giamaicana, nella fase centrale si tocca un vertice sonoro, spostandosi nel dub più sperimentale lasciando alla ritmica il compito di mandarci in trance non spostandosi di un millimetro dai loro solfeggi ritmici, ma trovando un punto d’incontro con la valvola, quella saturazione di cui ho riempito consapevolmente questa descrizione. Il basso si distorce, si evolve e consuma fino a fermare di botto il viaggio e lasciarci da soli in mezzo allo spazio.

Una punta pinkfloydiana che lascia il segno in una cassa dritta e implacabile che prende le veci del battito cardiaco, un cuore che pulsa senza sentimento, dritto, senza quell’aritmia, quella pausa che lo rende umano; è il cuore che si trova nello spazio, che ci osserva dall’alto e sembra commentare lo spettacolo in atto; e non può che farlo prendendone umanamente le distanze, massimo esempio robotico di quell’apatia che evidentemente coglie.

Un coro di voci adulte, neutre, attente a non far fuoriuscire una punta di genere ci salutano con insistenza dicendo "All Born Screaming" e prendendo le sembianze di ciò che nasce e che urla, vagisce ma scendendo nell’evidente paradosso di non sposarne il verso e l’età. Il bambino privo di genere che diventa adulto e le immagini finali di 2001:Odissea nello spazio mi si piantano in mente, ne siamo tutti figli.

Non è la prima volta che ne trovo dei richiami negli ascolti, mi era successo con Damon Albarn, con Weyes Blood, di recente con Greenwood, eppure sembriamo senza scampo. Quel punto d'incontro tra suoni e immagini, così perfetto e primitivo, ha evidentemente un proprio padre in uno dei maggiori registi cinematografici del Novecento e la nostra silenziosa ricerca di una domanda che ci sollevi da questo lento sentirci silenziosamente SATURI trova una risposta al caos in un punto indefinito nello spazio ma evidentemente ben chiaro a tutti. Una pausa rilassata, un luogo che ci stava aspettando. Il punto di fine che coincide con l’inizio, il pianto di bambini che prende la forma di un coro adulto e onnisciente oltre che restare, in maniera che definirei aliena, privo di genere.

Ed è mentre penso a tutto questo che la musica si asciuga, il tappeto è steso, il disco finito; rimangono solo le voci, che a questo punto non sembrano quasi più neanche di Annie, ma con quell’ultimo coro da dover ancora rimarcare. Ed io visualizzo in quei timbri lui, David Bowie. Sarà stata un’allucinazione, forse come questo incantevole album di St. Vincent. Potrei tornare indietro e provare a risentirlo, eppure preferisco non farlo e continuare a vederlo in questo messaggio dal sapore definitivo ma con il calore di un abbraccio.