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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
07/07/2017
Prince (And The Revolution)
1999
Nel 1982 Prince era una star di culto. Quattro album alle spalle, una hit (I Wanna Be Your Lover, del 1979) e una discreta manciata di concerti su e giù per gli Stati Uniti che gli avevano regalato assai più fama e soddisfazioni di quanto non avessero fatto le pubblicazioni in vinile.

Nel 1982 Prince era una star di culto. Quattro album alle spalle, una hit (I Wanna Be Your Lover, del 1979) e una discreta manciata di concerti su e giù per gli Stati Uniti che gli avevano regalato assai più fama e soddisfazioni di quanto non avessero fatto le pubblicazioni in vinile. Il suo pubblico, tuttavia, rimaneva prevalentemente di colore, il che confinava Prince nell’ambito per lui ristretto della black music (che fino ai primi decenni del secolo scorso, giova ricordarlo, era etichettata come race music).

È durante quell’estate, portato a termine il tour promozionale di “Controversy”, che il futuro “Minneapolis genius” si ritira nel suo seminterrato – appena adibito a studio di registrazione – e comincia a lavorare al nuovo album in totale solitudine (tradizione ormai consolidata), sperimentando nuovi suoni e nuove idee. Secondo quanto riportato da Matt Fink alla fanzine Uptown, Prince “stava cercando di diventare il più mainstream possibile, senza violare la propria filosofia.”

Ed è sempre durante quell’estate che comincia a prendere forma compiuta l’originalissimo groove funky/dance che negli anni a venire diventerà il marchio di fabbrica del cosiddetto Minneapolis Sound, grazie all’uso della Lynn - una innovativa (per l’epoca, s’intende) drum-machine immessa sul mercato proprio nel 1982 e che il Nostro utilizza portandola al massimo delle sue possibilità – e ai synth suonati in modo del tutto anomalo e collocati sovente al posto di quella che nel R&B tradizionale dovrebbe essere la sezione fiati.

Quando, il 27 ottobre del 1982, il doppio album fa la sua comparsa sugli scaffali dei ‘wrecka stow’, s’intuisce subito che qualcosa è cambiato. È un Prince diverso già dalla copertina: per la prima volta non appare la sua figura e ha un che di psichedelico quel viola che, di lì a breve, anche universi a noi sconosciuti impareranno a chiamare ‘purple’. Richiederebbe un’analisi a sè, zeppa com’è di messaggi più o meno espliciti o più o meno subliminali (nell’1 del titolo riconoscerebbero un simbolo fallico persino le Orsoline); basti per ora notare che sulla I di PRINCE compare per la prima volta la scritta (al contrario) “And The Revolution”, allusione tanto al contenuto del disco quanto al nome della band che lo accompagnerà nello stupefacente, faraonico tour promozionale che prenderà il via nel novembre di quell’anno e si concluderà trionfalmente nell’aprile del 1983.

Non sono di primo pelo i musicanti di cui si circonda il Pifferaio purpureo e tra essi figura come corista una certa Jill Jones che di lì a un lustro procurerà assai poco composti pruriti ai maschietti di mezzo mondo grazie a una sua canzone, “Mia Bocca”, scritta guarda caso proprio da Prince, e al relativo video.

1999” esplora nuovi territori e porta a completa definizione i confini del “Minneapolis Sound”: linee guida di synth in primo piano, drumming spaccamontagne, tessiture armoniche ricche ma mai ridondanti, chitarre funky scheggiate che scalpitano con petulante insolenza, assoli (magnifici) che distillano la quintessenza rock e slappate di basso che più funk non si può. Su tutto una sensazione di meccanicità elettronica che tuttavia non irrita e, anzi, si fa sovente seduzione futuristica e geniale avanguardia pop. Arduo apporvi un’etichetta, benché più d’uno sfrigolio dance ne attraversi i solchi. Si balla e si canta, insomma, che è un piacere.

Il salto di qualità rispetto ai precedenti lavori è quasi abissale. Prince è ora un artista maturo, consapevole, che non ha paura di sperimentare e può prendersi il lusso di dare forma come meglio crede a una creatività che rasenta l’inesauribile e a un talento forse unico nella storia della popular music. Il materiale di “1999” è il più forte e il meglio confezionato che Prince abbia prodotto fino a quel momento. Abbandonato il falsetto che aveva caratterizzato il suo cantato, in molti brani emerge, potente e versatile, la sua splendida voce naturale, e sono brividi, di quelli che non si scordano e che tornano, come fosse la prima volta, ad ogni nuovo ascolto.

I testi, pur continuando a esplorare i temi a lui cari, sono anch’essi più maturi, a tratti sarcastici e autoironici (come non sorridere quando lo si ascolta pavoneggiarsi e gigioneggiare in International Lover). Emerge per la prima volta una curiosa ambivalenza nei confronti dell’altro sesso: di volta in volta, le donne vengono aspramente criticate ai limiti dell’offesa (Little Red Corvette), adorate senza riserve (Delirious) o sedotte (Let’s Pretend We’re Married), e il sesso, sebbene non così esplicito come in “Dirty Mind”, assume talora ingombranti sfumature sadomaso in Automatic (nove minuti di delirio proto-techno) e in Lady Cab Driver.

Don’t worry / I won’t hurt U / I only want U 2 have some fun”: queste parole, che Prince recita con la voce filtrata dal vari-speed, aprono il primo dei due vinili originari: si rivelerà essere quello più orecchiabile e danzereccio.

1999” (uscito anche come singolo nel settembre del 1982) esplode di esuberante vivacità funky-dance e la sensazione di stare ascoltando una hit è pressoché immediata fin dalle prime battute. Stranamente, e con somma perplessità di tutto l’entourage, al momento della pubblicazione il 45 giri non riesce nemmeno a entrare nella Top 40 di Billboard.

Il brano introduce – già perfettamente delineate – molte peculiarità che definiranno, da qui in poi, il sound di Prince negli anni Ottanta: le fanfare di synth che surrogano la tradizionale sezione fiati, i celebri hand-claps quasi sempre piazzati quasi sempre sui “tempi deboli”, il groove funk che mutuando più di una sfumatura new wave, si fa più veloce e a tratti sincopato, il chiacchiericcio petulante della chitarra ritmica e il basso che lavora “dietro le quinte” (ci sarebbe da scrivere un intero volume sull’utilizzo innovativo che nella sua musica Prince fa dello strumento) tessendo oscure trame fra superbe tessiture armoniche.

Prince utilizza lo spauracchio di Armageddon per invitare tutti a coltivare una sorta di edonistica spiritualità attraverso i piaceri della carne, oscillando tra devozione e blasfemia con tanto autentica quanto provocatoria nonchalance. L’effetto corale del brano è sbalorditivo: ogni tassello risulta perfettamente incastrato e il chorus ti si appiccica addosso dopo un solo ascolto: “Cuz they say 2000 zero zero party over oops out of time / So tonight I’m gonna party like it’s 1999”. Ma è il brano seguente che cambierà definitivamente il futuro di Mr. Nelson, regalandogli il tanto bramato “attraversamento”, ossia la conquista del pubblico bianco nonché il successo su scala mondiale.

Estratto come secondo singolo (febbraio 1983), “Little Red Corvette” è a tutti gli effetti una (quasi) classica “canzone rock”. Tanto semplice nell’armonia (una progressione di tre accordi in minore che si ripete per tutto il brano) quanto complessa e stratificata nell’arrangiamento (il “ritardo” delle tastiere rispetto alla scansione ritmica della batteria, a inizio brano, provoca un effetto distonico che sfuma e si “allinea” a mano a mano che le parti vengono a collimare con l’ingresso della voce), la canzone fa piedino all’AOR, in virtù anche di un formidabile assolo quasi heavy di Dez Dickerson e di una melodia memorabile cantata magistralmente. Il velenoso ritornello “da stadio” fa il resto ed è abbastanza semplice comprendere la ragione per cui “Little Red Corvette” sfondò le barriere razziali arrivando al numero 6 di Billborad Hot 100.

È indubbiamente quanto di più commerciale Prince abbia prodotto fino a questo momento. Il testo, carico come di consueto di doppi sensi, narra dell’incontro con una ragazza dai costumi piuttosto facili, che seduce il piccoletto, se lo spupazza per bene e lo abbandona: “I guess I should’ve known by the way you parked your car sideways / that it wouldn’t last / See, U’re the kinda person that believes in makin’ out once / love ‘em and leave ‘em fast”.

Chiude la prima facciata un lascivo e scanzonato rock’n’roll (de)costruito su un classico blues in dodici. Il solco in cui s’inserisce il brano è quello già tracciato dalle precedenti “Sister” (Dirty Mind, 1980) e “Jack U Off” (Controversy, 1981), ma anche in questo caso il passo avanti lascia stupiti: l’arrangiamento – scarno – si regge su basso, batteria e un maligno riff di sintetizzatore. Il testo utilizza la metafora dell’automobile per descrivere i pruriti erotici che la protagonista provoca nel Nostro. Uscirà anche come terzo singolo “Delirious” (agosto 1983) raggiungendo anch’esso la Top Ten e consacrando Prince (che a dispetto delle superstizioni dello showbiz aveva eletto il viola a colore principe del suo immaginario) come stella di prima grandezza.

Si gira(va) il vinile e un secco ritmo in levare rimanda immediatamente a frenetiche pulsazione new wave che preparano l'ingresso del synth-bass suonato sugli ottavi: “Let's Pretend We're Married” è uno dei brani più geniali del piccoletto, passato purtroppo quasi inosservato sia dai critici sia dal grande pubblico. E se il grande pubblico è scusabile per definizione (si tratta, in fondo, di un pezzo piuttosto complesso e lungo di sfolgorante bravura per palati raffinatissimi), la critica no, ed è anzi colpevole di non aver colto nemmeno il sottilissimo sarcasmo che promana da questi sette minuti e venti secondi di pura sintesi: funk, new wave, pop, rock, rap e sperimentazione fusi assieme da un colpo di genio che tocca l'assoluto. Uscirà anche come singolo, ma nessuno ci farà caso.

Lo scenario è sterotipato, addirittura banale: il protagonista è appena stato lasciato dalla ragazza e la sola cosa che può lenirne il dolore è trovarne subito un'altra. Prince utilizza questo tema come scusa per esporre la sua “filosofia” di vita tutta incentrata sulla sessualità. L'incipit è di quelli che non si dimenticano: “Excuse me but I need a mouth like yours / to help me forget the girl that just walked out my door”.

Non ci viene spiegato esplicitamente che cosa Prince voglia fare con la bocca della “fortunata”, anche se qualche sospetto viene. Se sei libera per un paio d'ore – le dice – e non hai impegni per i prossimi sette anni (cinicamente utilizza qui un altro luogo comune, la crisi matrimoniale del settimo anno), possiamo fare finta di essere sposati e sbatterci tutta la notte. E promette pure che non si fermerà fino all'alba. Wow!

Il brano sfocia – e si conclude – in una sorta di rap ante litteram tra sfogo e confessione: “Whatever U heard about me is true / I change the rules and do what I wanna do”.

Dopo cotanto splendore, sarebbe lecito attendersi un calo, se non di qualità, almeno di tensione, e invece no, neanche per sogno. Il malefico groove di “D.M.S.R.” (che sta per Dance Music Sex Romance vale a dire i temi attorno ai quali l'album è imperniato) aggredisce nervi e muscoli con uno spettacolare interplay di basso, chitarra, synth e batteria. Più di otto minuti di delirante dance-funk in stile Parliament dove Prince coglie l'occasione per dichiarare le sua mission: “I don't wanna be a poet / Cuz I don't want to blow it / And I don't care to win awards / All I wanna do is dance, play music, sex, romance / Try my best to never get bored”. Il primo dei due dischi si chiude qui.

Meno “facile” e immediato, il secondo si apre con “Automatic”. Prince si descrive come un “automatic fool”, totalmente dipendente dalla donna di cui è – pare – innamorato. Nove minuti di glacialità plastificata prodotta da sintetizzatori minacciosamente cupi e un ritmo meccanico che non ammette varianti: una perla minimalista che si sviluppa su di un unico accordo portante, producendo nell'ascoltatore un senso di monotonia che nemmeno i lascivi coretti di Lisa Coleman e Jill Jones riescono a mitigare. Non bastasse la dipendenza assoluta (o forse proprio come conseguenza), il brano si trasforma in una morbosa vicenda S&M con tanto di voci femminili gementi di piacere e di dolore; o di piacere nel dolore. Nel video promozionale di accompagnamento (no, non l'avete mai visto su Videomusic, né su MTV), Lisa e Jill appaiono in vesti di mistress mentre frustano coi perizomi un estatico Prince legato al letto. Il tutto è talmente sopra le righe, quasi caricaturale, da riuscire a rendere simpatica una vignetta che basterebbe un soffio a rendere squallida.

Il mood già inquietante di “Automatic” si fa ancor più cupo e ombroso col brano successivo. L'ossessiva trama ritmica disegnata dalla drum-machine serve da sfondo a un riff di synth che emana un lieve ma allarmante senso d'angoscia. “Something In The Water (Does Not Compute)” è una scarna convulsione armonica che non prevede né basso né chitarre. Eppure funziona meravigliosamente bene nel suo pur precario equilibrio tra intensità e misura, dosate sul piano dell'arrangiamento con una maestria che ha ben pochi paragoni.

Il narratore è tormentato, o meglio, afflitto, perchè tutte le sue donne lo “trattano male” e non riesce a farsene una ragione. Ci deve essere “qualcosa nell'acqua che bevono”. Il pensiero che, invece, possa esserci qualcosa che non va in lui manco lo sfiora, e questo la dice lunga sull'ego del Nostro. Il brano si chiude in modo enigmatico: “I do love U, I do / Or else I wouldn't go through all the things I do”. Quali siano tutte queste cose che lui fa per amore di lei, non ci viene detto. E forse non lo vogliamo nemmeno sapere.

La tensione viene mitigata dalla seguente “Free”, il brano più convenzionale del lotto, ballata pianistica a tratti insopportabilmente leziosa. Caruccia, e nulla più. Nell'economia dell'opera ha una sua ragion d'essere, ma presa a sé si rivela una di quelle canzoni che Prince è in grado di scrivere mentre dorme (o mentre fa altro...). La cosa maggiormente degna di nota è l'esordio di Wendy Melvoin, anche se ai cori e non alla chitarra.

Rumore di traffico, clacson, coas urbano e una voce che chiama “Taxi! Taxi!”

Inizia così “Lady Cab Driver”, diamante funk che svafilla nella notte di Minneapolis. Essenziale, scarna, sincopata, summa del funk che fu e antesignana di quello futuribile. Prince abbandona i marchingegni elettronici e si lancia nel brano con la sua Telecaster, scheggiandone le corde per prudurre uno delizioso chiacchiericcio in perfetta intesa col rullante che marca in modo secco e deciso i tempi deboli della battuta. Il testo richiama ancestrali lamentazioni blues aggiornate ai tempi che corrono: “Lady cab driver / Can U take me 4 a ride? / Don't know where I'm goin' / Cuz I don't know where I've been / So put your foot on the gas, let's drive”.

Prince si lamenta con l'autista che – guarda un po' che fortunata coincidenza – è una (si suppone bellissima) donna; non ci vuole molto ad accorgersi che lui sta facendo il cicisbeo servendosi per altri fini di un atteggiamento pateticamente vittimistico. Un paraculo, insomma, come si rivela nel ritornello: “Lady cab driver / Roll up your window fast / Lately trouble winds are blowin' hard / And I don't know if I can last”.

E tuttavia la tela del seduttore si avviluppa subdolamente attorno alla donna che vi si trova impigliata senza via di scampo e cede al fascino di questo ragazzo sul quale soffiano “venti di guai”: “Take me to your mansion / Honey, let's go everywhere / Help me, girl, I'm drownin' mass confusion in my head / Will U accept my tears to pay the fare?”

Eppure qualcosa di vero nella sua lamentazione c'è se, mentre si trovano nel pieno di quella che pare essere una trombata epocale, Prince se ne esce rabbiosamente con queste parole: “This is for the cab the cab U have 2 drive for no money at all / This is for why I wasn't born like my brother, handsome and tall / This is for politicians who are bored and believe in war / And this... mmm, yeah, that's for me, that's who that one's for / This is for discrimination and egoists who think supreme / And this is for whoever taught U how 2 kiss in designer jeans / Uhh! That one's for, that one's for where U have 2 live / This one's for the rich – not all of 'em, just the greedy / The ones that don't know how to give...”

A quanto pare egli considera il sesso non solo un'immensa forza spirituale ma anche un'efficacissima tecnica di self-help: si sfoga di tutte le ingiustizie del mondo e di alcune personali.

Difficile capire che cosa stia facendo alla mal- o bencapitata tassista. La sta frustando? La sta penetrando? La sta picchiando? Escluderei l'ultima ipotesi, viste le le intense grida di piacere della donna (alla quale Jill Jones presta la, ehm, voce) in sottofondo. E comunque mica finisce qui: “This one's for Yosemite Sam and the tourists at Disneyland / This one... oh yeah, that's the one / That's for, that's for the creator of man / This is for the sun, the moon, the stars, tourists at Disneyland / This is for the ocean, the sea, the shore / This is for... and that's for you, that's who that one's for / This is for the women so beautifully complex / This one's for love without sex / This is for the wind that blows no matter how fast or slow / Not knowing where I'm going is galaxies better / Than not having a place 2 go / Now I know (now I know)”.

Che cosa c'entrino i “turisti a Disneyland” messi lì per la seconda volta tra sole, luna, stelle, oceano, mare e spiaggia, lo sa soltanto lui, ma ehi funziona! Verso la fine si ha l'impressione che Prince sia un po' sfinito e un po' lo siamo anche noi: abbiamo goduto tutti e non poco.

All The Critics Love U In New York” è un nervosissimo uptempo dominato dall'elettronica, nel quale Prince, piccato e petulante, se la prende coi critici: un brano dal taglio novelty spoglio e glaciale per il quale valgono le stesse considerazioni fatte per “Free”. Notevole, comunque, la linea di basso opportunamente arrogante, senza la quale il tutto probabilmente non starebbe in piedi.

Chiude un album epocale una delle migliori ballate “princiane”. “International Lover” riprende la atmosfere soft-core di “Do Me, Baby” (sul precedente Controversy) e le sviluppa ulteriormente. Il testo è un'altra storia di seduzione: Prince è il comandate di un aeroplano e non voglio insultare la vostra intelligenza spiegandovi la fin troppo evidente metafora.

1999 è forse il disco più importante e decisivo per la carriera di Prince. Il successo arrivò molto lentamente: il primo singolo omonimo non andò oltre la posizione numero 44 delle classifiche di Billboard e i dati di vendita dell'album, nei primissimi mesi, si attestarono intorno alle centomila copie. Ma qualcosa cominciò a cambiare quando MTV inserì in programmazione il videoclip promozionale di “1999” e cominciò a generare interesse per il personaggio.

La svolta giunse a fine febbraio 1983 quando la Warner pubblicò il secondo singolo tratto dall'album, “Little Red Corvette”. Il successo fu enorme e la quarta posizione raggiunta nelle classifiche pop dimostrò che Prince non era più un artista “di genere”, confinato a un pubblico prevalentemente “black”, bensì una popstar universale, in grado di piacere a tutti senza tuttavia rinunciare alle proprie radici culturali.

Il “1999 Tour” (ribattezzato poi, come si è già detti, “Triple Thrice Tour”) esordì l'11 novembre 1982. Il gran finale era previsto per la notte di capodanno ma le vendite crescenti dell'album e soprattutto l'incredibile successo di pubblico ai concerti convinse l'entourage a prolungare il tour fino all'aprile del 1983. I risultati furono eclatanti. La rivista “Rolling Stone” lo elesse artista dell'anno e tutte le più importanti star statunitensi accorrevano ai suoi ormai leggendari show.

Quando, nel maggio del 1983, si chiuse il bilancio, i dati risultarono impressionanti: il tour aveva incassato dieci milioni di dollari (record del 1983), l'album aveva venduto quattro milioni di copie, dei cinque singoli estratti, tre finirono nella Top Ten.

Eppure, tutto questo era ancora nulla se paragonato a ciò che sarebbe accaduto, in termini di fama e ricnoscimenti, soltanto un anno dopo. Il 1984 sarà infatti l'anno di Purple Rain...