Lo sport al cinema funziona sempre poco.
Funziona la boxe, per la sua componente violenta e animale, funziona il football, per come gli americani sanno raccontarlo da dietro le quinte.
Di certo non funziona il tennis.
O almeno, non funzionava fino a quest'anno in cui, a distanza di poche settimane, ben due film - La battaglia dei sessi e Borg McEnroe - sono usciti, convincendo.
Parliamo di quest’ultimo, parliamo di una finale a Wimbledon nel 1980, che è entrata nella storia. Una delle migliori sfide di tutti i tempi, capace di suscitare interesse e attenzioni anche prima che i due antagonisti scendessero in campo, e proprio per il carattere, la personalità, di questi due protagonisti
Da una parte, Björn Borg, la stella più luminosa del tennis dell'epoca, il giovane prodigio, capace di conquistare l'impossibile fin dalla tenera età, alla ricerca ora del quinto successo di fila sul campo londinese. Ripeto, quinto di fila. All'età di 24 anni.
Freddo, spietato, nessuna emozione per lui. Le interviste, i commenti a caldo, sono in realtà freddi e tecnici. Pura tecnica, puro perfezionismo.
Dall'altra parte, John McEnroe, astro nascente del tennis americano, famoso più per la sua ira, per i suoi sfottò e per le sue urla a giudici, organizzatori e pubblico, incapace di tenere il controllo, di tenere a freno la lingua. Puro cuore, che va di pari passo a una forza decisiva, a una bravura notevole, che lo fa il degno e prossimo avversario di Borg.
I due, in attesa di scontrarsi, si osservano.
La stampa con questa sfida fuori dal campo, ci va a nozze, mette dubbi e pressioni ad entrambi, che non fanno che crescere, coinvolgendo la sfera privata dei due campioni.
Soprattutto a uno svedese che la calma inizia a perderla, che ha paura, che la tensione ce la fa sentire tutta, nei suoi silenzi, nei suoi litigi, nella sua solitudine.
E li osserviamo, allora, sfida dopo sfida, avvicinarsi, li osserviamo rispettare un rituale scaramantico che sa di religioso - da una parte -, festeggiare e bere - dall'altra.
Poi, in silenzio, con il cuore che freme, li vediamo finalmente uno di fronte all'altro: a dividerli, una rete.
Ed è puro spettacolo, è una partita che prende allo stomaco, alla gola, al cuore.
Si finisce per tifare senza ritegno, per rimanere con il fiato sospeso, tra un game e l'altro, tra un match point e un altro, e un altro ancora.
Ad aiutare, per fortuna, un commentatore sportivo chiamato a guidare chi il tennis non lo mastica, con siparietti fatti di leggerezza e emozione che smorzano la tensione, e la aumentano.
Se il tennis finalmente funziona è grazie a una storia – certo - irripetibile come questa (anche se si è ripetuta, con un finale diverso, l'anno seguente, sempre a Wimbledon), ma è soprattutto grazie a una regia che ricostruisce ogni cosa nei minimi dettagli, con una cura preziosa, e soprattutto a un montaggio che rende palpabile ogni tensione, ogni battito di cuore che si ferma, fra una battuta, e un lancio, fra un flashback rivelatore e un presente a lui connesso.
È puro cinema al servizio dello sport più grande, è puro sport al servizio del gran cinema.
Applausi a scena aperta, quindi, a due attori sottovalutati, vuoi perché sconosciuti (il bel svedese Sverrir Gudnason) vuoi perché troppo impegnati a far parlare di sé fuori dal grande schermo (Shia LeBoeuf, in un ruolo per questo ancor più perfetto), che si immedesimano, e finiscono per aderire completamente ai loro personaggi.
Così, se alla fine si finisce per essere felici, fieri, per aver tifato per l'uno e per l'altro, per aver lo stomaco contratto di fronte a un match point vincente che sembra non arrivare mai, e quasi gridare - di gioia, di liberazione - assieme al vincitore, e se tornando a casa si finisce per studiare altre sfide, altri nomi, altro tennis, allora, la sfida più grande Borg e McEnroe l'hanno vinta qui, sul grande schermo.